Chi umilia continuamente la propria moglie, facendola vivere in condizioni di schiavitù psicologica e trattandola come una domestica, commette il reato di “maltrattamenti in famiglia”.
È quanto stabilito da una recente sentenza della Cassazione . Secondo la Suprema Corte il reato di maltrattamenti in famiglia sussiste anche in presenza della sola violenza psicologica che viola la dignità della vittima; non sono quindi necessarie pure le percosse e lesioni fisiche. (Cass. sent. n. 19674 del 13.05.2014)
Il reato in questione (art. 572 cod. Pen) si configura, dunque, ogniqualvolta il soggetto adotti comportamenti vessatori, prevaricatori e violenti nei confronti di un membro della propria famiglia (anche semplice convivente).
La violenza può essere anche solo psicologica per cui è punibile il marito che minaccia la propria moglie, inducendola a vivere in uno stato di schiavitù e a sottostare ai suoi “ordini”.
Simili atteggiamenti possono provocare un grave disagio e sofferenza morale nella vittima che, continuamente vessata e denigrata, non può condurre una normale esistenza neppure nell’ambito della sua famiglia.
La Costituzione garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (libertà, uguaglianza ecc.) all’interno delle formazioni sociali (tra cui la famiglia) in cui egli svolge la sua personalità. L’inviolabilità comporta che nessuna legge, usanza o costume possa negarli o lederli.
Ne deriva che la sottomissione della moglie al marito non è giustificata in Italia neppure quando rientra nelle tradizioni culturali del Paese straniero di provenienza dei coniugi.
Ogni forma di violenza e prevaricazione perpetrata all’interno della famiglia è comunque punita dalla legge perché è così grave da ledere la personalità e l’integrità morale della vittima.
Foggia, 14 maggio 2014 Avv. Eugenio Gargiulo