Dopo la riflessione sul «che cosa è stato?», che ha caratterizzato la prima edizione, sul «perché?» interrogativo attorno al quale ha ruotato la seconda, nel corso dell’edizione 2014 la riflessione ha avuto come teatro e come oggetto d’indagine i volti, di cui ora non ci restano che i nomi, e i luoghi in cui si è consumato l’orrore della furia nazista, ma ove si è anche assistito alla resistenza al male, alla forza della speranza e ai quei gesti di piccola bontà che ci fanno concludere che, forse, l’amore è più forte della morte.
Per l’edizione 2015 del Festival Fare memoria, organizzata in collaborazione con il Master in Didattica della Shoah dell’Università Roma 3, le riflessioni degli illustri relatori verteranno sul senso che acquisisce la memoria se collocata nel quanto mai delicato solco che corre tra vecchio e nuovo antisemitismo. Un tema, purtroppo, di estrema attualità: basti pensare alla strage nella strage degli attentatori di Charlie Hebdo, che non hanno risparmiato, dopo averli fatti prigionieri, neppure la vita dei quattro malcapitati clienti del negozio koscher, mentre il fallimento di un attentato studiato con dovizia di particolari all’asilo ebraico è stato sventato grazie all’agente che ne sorvegliava l’accesso. Sventato, ma pagando l’alto prezzo di un’altra vita spezzata a soli vent’anni. «Je suis Charlie, je suis juive» verrebbe da dire.
A tal proposito suonano come un monito le parole scritte, sulle colonne del «Corriere della Sera», da Rav Giuseppe Laras nei giorni immediatamente seguenti quelle tragiche cinquanta sei ore di vittime, blitz, altre vittime. E poi silenzio. Un silenzio assordante. Un «finta di niente» che paralizza e fa paura: «Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi. È la prima volta dai giorni di Adolf Hitler che le sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato. Tuttavia, è unicamente il tragico e spaventoso attentato al giornale Charlie Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è trattato “solo” di ebrei. Parimenti non ci sono stati sgomento e allarme per il fatto che da anni ormai, giustamente, gli ebrei francesi abbandonino la “laica” Francia. Così accade in molti altri Paesi europei e il motivo è il medesimo, ovvero il dilagare del terrorismo di matrice islamista, con il suo carico di odio antisemita. Molti intellettuali e politici sostengono che il problema non è l’Islàm, ma il terrorismo. È come dire che il cristianesimo non è l’antisemitismo o l’antigiudaismo. Certo! Tuttavia è innegabile che l’antisemitismo e l’antigiudaismo sono stati problemi profondi propri del cristianesimo (e non solo). La violenza e il fanatismo, la sottomissione religiosa e il terrore non esauriscono l’Islàm, ma sono un problema religioso che in qualche modo riguarda l’Islàm. L’autocritica dell’Islàm (assieme alla critica laica esterna) su questo punto sembra difettare. Le religioni (anche se sono convinto -e con me Rosenzweig, Buber, Heschel, Bonhoeffer, Barth, Ratzinger e Martini- che ebraismo e cristianesimo siano anzitutto fedi e non soltanto religioni) possono essere causa di guerre, di violenze e nei loro insegnamenti albergare forze distruttive. Non è vero che è solo l’economia a causare guerre e barbarie: le religioni, al pari dell’ateismo e di un certo illuminismo, sono esperte in materia. Nel caso del cristianesimo si è spesso trattato di problemi interpretativi, con l’Islàm il problema dimora parzialmente nel testo sacro stesso (e inviterei al riguardo a studiare i libri di Bernard Lewis, Norman Stillman, Georges Bensoussan, Bat Ye’or). Cristiani ed ebrei, secondo il Corano, sono presenti nei Paesi islamici in quanto dhimmi, popolazioni sottomesse, tollerate purché subalterne e paganti apposite tasse. Cosa dobbiamo, sia a livello politico e giuridico sia a livello interreligioso, chiedere oggi ai più autorevoli teologi islamici nei Paesi europei e arabi, anche a fronte della massiccia presenza demografica di musulmani? La prima domanda è la seguente: è possibile per l’Islàm, in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo, il concetto di cittadinanza politica, anziché quello dicittadinanza religiosa, confliggente quest’ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche, che, in qualità di minoranze sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio? Se sì, come diffondere questa interpretazione e come radicarla oggi in seno alle comunità islamiche? A questa domanda deve seguire necessariamente la “reciprocità” nei Paesi islamici della piena libertà di espressione, di stampa e di culto. Questa domanda fondamentale, per ignoranza, ignavia e inettitudine, non è mai stata seriamente posta dai politici europei, che hanno responsabilità enormi, anche del sangue sinora versato. C’è una seconda questione, che si intreccia alla prima e che chi è veramente interessato al dialogo non può eludere. Per l’Islàm, gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico. È possibile per l’Islàm, in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musulmani osservanti, e non solo perché sollecitato da ebrei e cristiani, apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, ebrei e cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo assunto coranico? Questa seconda domanda fondamentale, per un’erronea comprensione del dialogo e del rispetto, nonché per un dilagante buonismo pressapochista, non viene mai posta, nemmeno dalle stesse autorità religiose cristiane ed ebraiche».
Poi continua: «C’è una tentazione che può profilarsi, a diversi livelli, sia nel cristianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e religiosa con l’Islàm politico. Un accordo, per così dire, tra maggioranze, specie nell’ottica delle future proiezioni demografiche religiose europee e mediterranee. È una strategia fallimentare che i cristiani arabi provarono con il panarabismo e l’antisionismo. Gli esiti sono ben noti: dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei “loro” ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane. È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani, sino a Mosul. E molti Paesi europei, un’intera “classe” di intellettuali e molti cristiani di Occidente hanno le mani grondanti del sangue dei cristiani di Oriente, dato che sono stati disposti a sacrificarli sugli altari del pacifismo, dell’opportunità politica, di un malinteso concetto di tolleranza, della cultura benpensante e radical chic, della “buona” coscienza. A fronte di silenzi, spesso pluridecennali, non ci sono politici innocenti o autorità religiose cristiane che su questo possano dormire serenamente. La tentazione di abbandonare gli ebrei e Israele è già esistente nei ricorrenti episodi di boicottaggio europeo, sia a livello economico sia a livello culturale e universitario, dello Stato di Israele. Esiste nel silenzio imbarazzato o infastidito sui morti ebrei in Europa oggi. Con buona pace della Giornata della Memoria. La Giornata della Memoria è stata purtroppo addomesticata con liturgie pubbliche e anestetizzata dalle cerimonie in Parlamento e al Quirinale. Le più alte cariche dello Stato dovrebbero annualmente andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di Roma vittima del rastrellamento nazifascista, per far capire che è una realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, con il plauso, la collaborazione, l’assenso e i silenzi di moltissimi –troppi- italiani. Organizzata come è attualmente, sembra riguardare un qualcosa lontano nel tempo, accaduto soltanto in Germania o in Polonia. Essa così risulta azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il presente e incidervi positivamente».
È proprio volendo contrastare il cristallizzarsi della Giornata della memoria che rischia di perdere la sfida più importante: gettare nuova luce sul presente, che il nostro Festival intende fare avvertire il bisogno e il dovere morale di porre in evidenza come certi scenari geopolitici contemporanei richiamano molto da vicino lo spettro del nazismo e l’orrore della persecuzione. Non soccombere alla paura, non piegarsi a certe logiche intrise di subdolo buonismo significa avere il coraggio dellaparresìa, a partire dalla consapevolezza e dal senso di colpevolezza che molti cristiani non possono esimersi dal riconoscere recitando idealmente la preghiera che Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, formulò dinnanzi al Muro Occidentale: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza».
È a partire da questo assunto e dalla complessità di un presente ove la crisi, ancor prima che economica, è etica e valoriale che l’Associazione culturale Filosofi lungo l’Oglio – con al suo interno, un Comitato scientifico così costituito: Ilario Bertoletti, Bernhard Casper, Piero Coda, David Meghnagi, Salvatore Natoli, Adriano Fabris, Aldo Magris, Maria Rita Parsi, Amos Luzzatto, Ilario Bertoletti e la scrivente – intende proporre un percorso capace di indagare la Shoah da un punto di vista fenomenologico-ermeneutico, storico, teologico, antropologico per fare della memoria non una mera cerimonia pubblica, ma un imperativo e una questione che vanno presi, davvero, sul serio. Che vanno vissuti con tutto se stessi. Come ammonì ancora Karol Wojtyla nel suo Discorso in occasione della commemorazione dell’Olocausto (7 aprile 1994): «Rischieremmo di far morire nuovamente le vittime delle più atroci morti, se non avessimo la passione della giustizia e se non ci impegnassimo, ciascuno secondo le proprie capacità, a far sì che il male non prevalga sul bene, come è accaduto nei confronti di milioni di figli del popolo ebraico… L’umanità non può permettere che ciò accada di nuovo».
Come è elemento costitutivo del nostro Festival estivo la rassegna, fedele al binomio luogo-pensiero e al format di un circuito itinerante e, dunque, di una cultura radicata sul territorio, si articolerà in quattro incontri complessivi (tutti ad ingresso libero), distribuiti in diverse località della Provincia di Brescia – nello specifico nei Comuni di Orzinuovi, Rovato, Palazzolo sull’Oglio per poi concludersi in città – che si terranno dal 29 gennaio al 12 febbraio 2015. La manifestazione si chiuderà il 6 marzo 2015 con l’inaugurazione del Giardino dei Giusti di Orzinuovi in occasione della celebrazione della III edizione della Giornata Europea dei Giusti.
I PROTAGONISTI
I relatori saranno, come è consueto, di elevata caratura: da David Meghnagi – ideatore e direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah presso l’Ateneo di Roma Tre dove insegna anche Psicologia Clinica, Psicologia dinamica, Psicologia della Religione e Pensiero Ebraico a Miriam Meghnagi – considerata una delle principali interpreti contemporanee del patrimonio musicale ebraico: il suo repertorio, continuamente arricchito da ricerche sul campo e da originali elaborazioni e composizioni, abbraccia l’insieme delle tradizioni ebraiche e mediterranee in varie lingue e dialetti (ebraico, arabo, ladino, judezmo, yiddish, bajitto – da Cyril Aslanov – docente di linguistica all’Università Ebraica di Gerusalemme nonché membro dell’Accademia della Lingua Ebraica e dal 2007, direttore accademico dell’International Center for the University Teaching of Jewish Civilisation – a Mons. Luigi Nason – già responsabile per la Formazione biblica nell’Arcidiocesi di Milano e collaboratore dell’Ufficio Ecumenismo e dialogo per i rapporti con l’ebraismo, attualmente continua la sua attività di biblista, specializzato nella ricerca sulle Scritture ebraiche (Primo Testamento) e nello studio della tradizione interpretativa ebraica, tenendo lezioni in diverse Scuole bibliche e conferenze in Italia e all’estero.
E ancora da Rav Giuseppe Laras – finissimo studioso di Filosofia medievale, professore universitario, conferenziere di fama internazionale, rabbino capo ad Ancona nonché «tessitore» instancabile del dialogo ebraico-cristiano, Laras è stato altresì rabbino capo della Comunità ebraica di Milano, dove ha retto la cattedra per oltre venticinque anni. «Ambrogino d’oro», presidente onorario dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, è presidente del Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia e del Comitato scientifico della Fondazione Maimonide di Milano – a Mons. Gianantonio Borgonovo – Dottore Ordinario della Veneranda Biblioteca Ambrosiana ove ricopre gli incarichi di Direttore della medesima e della Classe di Studi sul Vicino Oriente. Studioso di vasta erudizione, nel campo esegetico è stato l’iniziatore dello studio del libro di Giobbe mediante il metodo critico dell’analisi simbolica. Il 2 dicembre 2012, il card. Angelo Scola lo nomina arciprete del Duomo di Milano e il 9 dicembre successivo, durante la celebrazione eucaristica della quarta domenica d’avvento ambrosiano presieduta dall’arcivescovo, inizia il suo nuovo ministero.
TRANSITIVITÀ DEL FARE MEMORIA
Per la quarta edizione del Festival Fare memoria, l’intensità del tema prescelto lo si può cogliere sin dal sottotitolo: Tra vecchio e nuovo antisemitismo. Con tutta la forza di significato che sta in quel «tra». Come dire: non solo senza memoria non c’è futuro, ma siamo convinti che il fare memoria sia in grado di gettare luce sul nostro presente così complesso e preoccupante. Non solo quel «tra» indica che il confine è labile, che lo stare sulla soglia «tra» quell’unicum che fu la Shoah e il nostro presente significa che o si ha inteso fino in fondo che male porta male oppure la brutalità può manifestarsi sotto altre spoglie. E tornare. Si pensi solo alle persecuzioni delle minoranze – dagli jazidi ai zoroastriani fino ai cristiani d’Oriente – al moltiplicarsi di fucilazioni, esecuzioni di massa, sgozzamenti di esseri umani postati sul web. Alle donne violentate e vendute come schiave, ai bambini e ai vecchi per i quali non esiste alcun tipo di pietà. Di qui il demone della paura, come insegna Zygmunt Bauman, che lascia con il fiato sospeso il mondo intero e che attecchisce nelle nostre esistenze con il rischio di intrappolarci. Di immobilizzarci.
Ma occorre reagire, non smettere mai di ricordare, di raccontare alle nuove generazioni fino a dove può spingersi la bestialità umana: dallo sterminio del popolo ebraico al genocidio degli Armeni da parte della Turchia, di cui ricorrono i cento anni proprio nel 2015, per arrivare alla tragedie odierne. Di più, non solo rimembrare, ma cercare di promuovere il dialogo ecumenico e, nello specifico, quello ebraico-cristiano. C’è un passo, molto significativo in proposito, che troviamo nella prefazione del 1990 al saggio Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo che il filosofo ebreo lituano Emmanuel Levinas pubblicò con grande coraggio nel 1934, ossia all’indomani della salita al potere di Hitler. Levinas scrive riferendosi all’origine dei quei sentimenti elementari che, secondo la sua finissima indagine fenomenologica, costituivano l’hitlerismo: «v’è la convinzione che tale origine attenga ad una possibilità essenziale del Male elementale (Mal élémental) cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastanza assicurata.
Possibilità che s’inscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura d’essere – dell’essere “dem es in seinem Sein um dieses Sein selbst geht.”, secondo l’espressione heideggeriana. Possibilità – avverte Levinas – che minaccia ancora il soggetto correlativo all’esser-da-radunare e da-dominare (l’être-à-rassembler et à-dominer), questo famoso soggetto dell’idealismo trascendentale che innanzitutto che si vuole e si crede libero”». È su questo «minaccia ancora» che si deve, a nostro avviso, riflettere e insieme avvertire l’urgenza di quell’être rive ove alberga «l’importanza attribuita al sentimento del corpo», ove «Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore. La voce misteriosa del sangue, gli appelli dell’eredità e del passato di cui il corpo è l’enigmatico portatore, perdono la loro natura di sotto problemi sottoposti alla soluzione di un Io sovranamente libero. […] L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento». E nel fare memoria, se davvero si vuole intendere questa espressione in tutta la fecondità della sua transitività occorre ritornare a quei passi contenuti nell’importante documento: Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah firmato nel 1988 dalla Commissione pontificia per i rapporti religiosi con l’Ebraismo.
Occorre avere la sobrietà e insieme il coraggio di rileggere quelle righe per dare corso ad un autentico essere-in-ascolto-dell’altro. Recita il testo: «Non si può ignorare la differenza che esiste tra l’antisemitismo, basato su teorie contrarie al costante insegnamento della Chiesa circa l’unità del genere umano e l’uguale dignità di tutte le razze e di tutti i popoli, ed i sentimenti di sospetto e di ostilità perduranti da secoli che chiamiamo antigiudaismo, dei quali, purtroppo, anche dei cristiani sono stati colpevoli. L’ideologia nazionalsocialista andò anche oltre, nel senso che rifiutò di riconoscere qualsiasi realtà trascendente quale fonte della vita e criterio del bene morale. Di conseguenza, un gruppo umano, e lo Stato con il quale esso si era identificato, si arrogò un valore assoluto e decise di cancellare l’esistenza stessa del popolo ebraico, popolo chiamato a rendere testimonianza all’unico Dio e alla Legge dell’Alleanza.
A livello teologico non possiamo ignorare il fatto che non pochi aderenti al partito nazista non solo mostrarono avversione all’idea di una divina Provvidenza all’opera nelle vicende umane, ma diedero pure prova di un preciso odio nei confronti di Dio stesso. Logicamente, un simile atteggiamento condusse pure al rigetto del cristianesimo, e al desiderio di vedere distrutta la Chiesa o per lo meno sottomessa agli interessi dello Stato nazista. Fu questa ideologia estrema che divenne la base delle misure intraprese, prima per sradicare gli ebrei dalle loro case e poi per sterminarli. La Shoah fu l’opera di un tipico regime moderno neopagano. Il suo antisemitismo aveva le proprie radici fuori del cristianesimo e, nel perseguire i propri scopi, non esitò ad opporsi alla Chiesa perseguitandone pure i membri. Ma ci si deve chiedere se la persecuzione del nazismo nei confronti degli ebrei non sia stata facilitata dai pregiudizi antigiudaici presenti nelle menti e nei cuori di alcuni cristiani. Il sentimento antigiudaico rese forse i cristiani meno sensibili, o perfino indifferenti, alle persecuzioni lanciate contro gli ebrei dal nazionalsocialismo quando raggiunse il potere?
Ogni risposta a questa domanda deve tener conto del fatto che stiamo trattando della storia di atteggiamenti e modi di pensare di gente soggetta a molteplici influenze. Ancor più, molti furono totalmente ignari della « soluzione finale » che stava per essere presa contro un intero popolo; altri ebbero paura per se stessi e per i loro cari; alcuni trassero vantaggio dalla situazione; altri infine furono mossi dall’invidia. Una risposta va data caso per caso e, per farlo, è necessario conoscere ciò che precisamente motivò le persone in una specifica situazione. All’inizio, i capi del Terzo Reich cercarono di espellere gli ebrei. Sfortunatamente, i Governi di alcuni Paesi occidentali di tradizione cristiana, inclusi alcuni del Nord e Sud America, furono più che esitanti ad aprire i loro confini agli ebrei perseguitati. Anche se non potevano prevedere quanto lontano sarebbero andati i gerarchi nazisti nelle loro intenzioni criminali, i capi di tali nazioni erano a conoscenza delle difficoltà e dei pericoli a cui erano esposti gli ebrei che vivevano nei territori del Terzo Reich. In quelle circostanze, la chiusura delle frontiere all’immigrazione ebraica, sia che fosse dovuta all’ostilità antigiudaica o al sospetto antigiudaico, a codardia o limitatezza di visione politica o a egoismo nazionale, costituisce un grave peso di coscienza per le autorità in questione.
Nelle terre dove il nazismo intraprese la deportazione di massa, la brutalità che accompagnò questi movimenti forzati di gente inerme, avrebbe dovuto suscitare il sospetto del peggio. I cristiani offrirono ogni possibile assistenza ai perseguitati, e in particolare agli ebrei? Molti lo fecero, ma altri no. Coloro che aiutarono a salvare quanti più ebrei fu loro possibile, sino al punto di mettere le loro vite in pericolo mortale, non devono essere dimenticati. Durante e dopo la guerra, comunità e personalità ebraiche espressero la loro gratitudine per quanto era stato fatto per loro, compreso anche ciò che Pio XII aveva fatto personalmente o attraverso suoi rappresentanti per salvare centinaia di migliaia di vite di ebrei.
Molti Vescovi, preti, religiosi e laici, sono stati per tale ragione onorati dallo Stato di Israele. Nonostante ciò, come Papa Giovanni Paolo II ha riconosciuto, accanto a tali coraggiosi uomini e donne, la resistenza spirituale e l’azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da discepoli di Cristo. Non possiamo conoscere quanti cristiani in paesi occupati o governati dalle potenze naziste o dai loro alleati, constatarono con orrore la scomparsa dei loro vicini ebrei, ma non furono tuttavia forti abbastanza per alzare le loro voci di protesta. Per i cristiani questo grave peso di coscienza di loro fratelli e sorelle durante l’ultima guerra mondiale deve essere un richiamo al pentimento.
Deploriamo profondamente gli errori e le colpe di questi figli e figlie della Chiesa. Facciamo nostro ciò che disse il Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra aetate, che inequivocabilmente afferma: «La Chiesa… memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque». Ma cosa significa far nostro quanto contenuto nel Nostra Aetate se non mettere capo, sul serio, ad una teshuvà sincera ovvero a quella riparazione del mondo (tiqqun ‘olam) cui nessuno può sottrarsi, tanto più ina temperie culturale dove l’antisemitismo sta tornando, sotto altre spoglie, a far paura e ad uccidere. In questa profonda crisi dell’umanità in cui il “mai più” pronunciato dai sopravvissuti torna ad essere nuovamente messo in discussione, è necessario contrapporre alla fallacia ontologica di cui il nazismo è figlio e a quel male che oscura le coscienze in un delirio di onnipotenza che provoca solo morte e annientamento, quella saggezza dell’amore, che non è nient’altro che la filosofia prima. Fino ad avvertire una colpevolezza da sopravvissuti. Fino a farsi – ostaggio-per-l’altro-uomo.
In ultima analisi diventa preziosa la riflessione di Simmel su ponte e porta e la differenza tra queste due strutture di separazione e di comunicazione «che si rivela nel fatto che se è indifferente superare il ponte in una direzione o nell’altra, la porta indica al contrario una completa differenza di intenzione a seconda che si voglia entrare o uscire». E aggiungiamo noi, a seconda che la si voglia aprire dando senso alla transitività della memoria o chiudere come farebbe l’individuo blasè, indifferente e annoiato della metropoli simmeliana. In questa scelta, a nostro avviso, v’è in gioco molto di più di un pari pascaliano. Qui ne va dell’umanità stessa dell’uomo.