Dopo l’intervento marocchino del 13 novembre che ha portato al ripristino della normalità, della circolazione e la sicurezza nella strada internazionale che collega Marocco e Mauritania in particolare nel valico di Guerguerat bloccato dalle bande armate arrivate dall’Algeria, dopo questa crisi pacificamente risolta, è il momento di far ricordare la responsabilità algerina nel conflitto regionale come parte principale della disputa che dura più di 40 anni. Un Paese che non può più essere ritenuto un fattore esterno e secondario, ma un protagonista principale come affermano le Nazione Unite.
Algeria è stata protagonista dagli anni 70, sino alle ultime tensioni di questi giorni ad armare e sostenere il gruppo separatista.
I marocchini lo sanno molto bene e non a caso la diplomazia marocchina ha sempre cercato un dialogo con i vicini algerini chiamandoli per nome nella disputa in corso. Ne è prova concreta l’ultimo discorso Reale del 2019 in occasione della festa del trono dove il monarca marocchino, Mohammed VI, ha di fatto teso la mano all’Algeria invitandola a cambiare registro e a collaborare in una prospettiva nuova di vicinato.
Con i risvolti di questi giorni torna dunque attuale una domanda: dove vuole andare l’Algeria?
Dopo le dimissioni – forzate dalla piazza e dai militari – dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, l’Algeria continua a brancolare nel buio nonostante la ricchezza energetica che detiene il suo sottosuolo, tra i più ricchi al mondo.
L’attuale presidente Abdelmajid Tabboune, sparito dai radar da mese perché trasferito in Germania a curarsi dal Covid, è stato eletto con un record di bassa affluenza che lo identifica come un ulteriore uomo del sistema militare, che la stessa piazza aveva denunciato.
Oggi, con questi presupposti è evidente che il Paese non può andare lontano, e la questione del Sahara aiuta meglio a chiarire la prospettiva: nonostante siano passati decenni, la contesa continua ad essere ancor di più il nervo scoperto di una politica e di una geopolitica che fatica a fare un passo in avanti.
La posizione ufficiale algerina sulla disputa del Sahara è da sempre stata quella del sostegno al “principio di autodeterminazione dei popoli”. Eppure è lo stesso Paese a non praticare lo stesso principio con il popolo Amazigh che rappresenta il 60% della popolazione e si appella da anni per il rispetto dei propri diritti politici e culturali.
C’è inoltre un dato da evidenziare, che delinea un’evoluzione non positiva per l’Algeria: in questo suo percorso, sempre uguale a se stesso, non sembra acquisire alleati rispetto al passato, ma perderli. Algeria è isolata nel mondo questo isolamento è peggiorato in quanto molti Paesi asiatici, europei, africani e sudamericani sostengono l’unità del Marocco.
La solidarietà al Marocco è avvenuta, nel 2020, nella cornice politica e diplomatica che ha visto l’apertura di 19 consolati proprio a Laayoune e Dakhla nel Sahara.
La disputa con il Marocco rappresenterebbe più un dogma per il regime militare algerino in quanto non avrebbe forza e non continuerebbe ad esistere se non con la creazione e il rafforzamento di questo nemico esterno, che gli serve per legittimare la propria esistenza e quella spesa esorbitante in armi, che lo piazza come il Paese che investe il 45% delle proprie risorse belliche, anche se non risulti che l’Algeria sia in guerra.
La popolazione algerina ormai disperata e contraria a questa vecchia politica che continua a rimanere sempre uguale a se stessa nonostante si sia dimostrata fallimentare da decenni, creando soltanto povertà, assistenzialismo e mai ricchezza o sviluppo per il Paese.
Una politica che non è cambiata nemmeno con la pandemia, dove si è ridotto almeno del 50% il bilancio di tutte le spese, anche nei settori importanti. Ma guai a toccare la spesa riguardante le armi che servono ovviamente per combattere il “nemico classico” ovvero il Marocco.
Gli interrogativi sul futuro dell’Algeria se li pongono i centinaia di giovani algerini che stanno riprendendo in massa i barconi verso le coste europee, girando le spalle a un Paese che ha smesso, e da un pezzo, di creare lavoro e quindi prospettive per i suoi figli.
Ecco, forse è il caso che le autorità di Algeri inizino a chiedersi che cosa vogliono fare da grandi; ma è qui dove si nasconde il nocciolo del problema: la classe dirigente algerina che detiene il potere politico e militare è ancora la stessa dalla creazione dello Stato negli anni ’60, e quindi finché sarà così, e non ci sarà una transizione democratica e legittima che dia spazio a quella generazione di giovani che popolano il Paese, sarà difficile pensare a un futuro di lungo termine, e non a una utopica vittoria sul campo, con armi ormai vecchie e desuete.
Infine, un auspicio! Per l’Algeria si potrebbe emanciparsi togliendo gli ostacoli per promuovere una integrazione regionale maghrebina efficiente, avviando l’apertura delle frontiere con il Marocco e la canalizzazione delle energie e competenze verso la costruzione di un futuro comune migliore per i tanti giovani magrebini, risparmiandoli dalla rotta della morte del Mediterraneo?