Esteri

Libia, un anno dopo

Quando piove, il suolo scivola in Libia, anche sotto scarponi di gomma corazzata. Soprattutto scalinate e pavimenti. La ragione che me ne faccio è che c’erano molti soldi in circolazione e il marmo lucido aveva conquistato il paese; basta tuttavia un inverno più umido del solito, ora che il suo quasi eterno Raīs non c’è più, per rischiare la caduta ad ogni pié sospinto. Ieri notte, ha addirittura nevicato in alcuni quartieri di Tripoli, e le campagne sono verdissime: il buon Dio vuol fare un secondo regalo a questa gente dopo tante pene?

Abdel Hafīzh Mohammad Sīdūn è un avvocato che vive nelle campagne di Misurata. Durante la rivoluzione, lo tennero d’occhio perché avevano ritrovato una foto su Internet in cui sorrideva a fianco di Hillary Clinton a Washington, a chiusura di un corso di formazione su democrazia e diritti umani, Leaders for Democracy Fellowship. Un giorno passarono per casa sua, gli confiscarono computer, libri, macchina fotografica ed auto e lo arrestarono con l’accusa di essere una spia. Era il mese di maggio 2011. Quando ammazzeranno Gheddafi, lui sarà ancora in prigione, da cui uscirà il 24 ottobre 2011. Porta i capelli molto corti ed una barba di media tosatura lungo il profilo inferiore della mascella. Al vederlo, qualcuno lo potrebbe prendere per un seguace dell’Islam antioccidentale, ma a lui interessa solamente la libertà del proprio paese, e non vuole un altro emirato al posto di quello nazional-socialista del defunto Gheddafi. Arrivò al corso per caso, tramite Ibrāhīm el-Kalāmy, avvocato anche lui, di Zāwiya, senza avvertire prealablemente le autorità libiche. Ibrāhīm non fu più fortunato dell’amico, anche lui si fece cinque mesi; ma per lui almeno non fu una novità, avendo già sperimentato la tortura del regime in altre due occasioni.

La storia di questi due avvocati, fondatori del Centro libico per la democrazia e la cittadinanza, è a simile a quelle di molti libici che vogliono ricostruire un paese che aveva perduto dignità e civiltà. A Tripoli si viveva senza teatro, ed i cinema non offrivano che vecchie commedie egiziane o film d’azione, perché il popolo non poteva distrarsi troppo. Le università non offrivano lo studio delle lingue europee, ma piuttosto di quelle del Continente nero, perché la Libia apparteneva alla grande Africa. Tutto stava scritto nel Libro Verde del Colonnello: democrazia diretta plebiscitaria dove tutti potevano parlare, per questo non vi era bisogno di un parlamento; poprietà collettiva di beni ed imprese, dove il cittadino aveva diritto a possedere una sola casa; diritto famigliare che riconosceva l’atto di riproduzione come un atto sociale e la famiglia come il primo nucleo della rivoluzione gheddafiana, che generasse un popolo nuovo, liberato e prolifico. Un Paese chiuso su sé stesso, dove ogni comunità aveva almeno un campo militare, ma non necessariamente una scuola o un ospedale, dove il Colonnello presenziava in televisione almeno una volta alla settimana, dove tutto ciò che si costruiva in Libia era declamato essere più grande che altrove, come la base di Tājūra, che sfioriamo in automobile, apparentemente il più grande campo militare del mondo. Così, se passeggi per il centro di Tripoli, la Piazza Verde o la Piccola Roma, non trovi un solo Caffé decente dove sedersi per prendere qualcosa, a parte un piccolo locale affumicato per soli uomini, ed una caffetteria in stile sovietico in direzione del porto… Lo svago non era permesso, se non per lui, perché il popolo doveva implementare la rivoluzione.


Forse, anche per questo non sono ancora riuscito e vedere per strada una donna senza velo, perché la rivoluzione del Colonnello richiedeva una devozione assoluta al dovere. Le prime donne senza velo, due bellissime ragazze con capelli e occhi nerissimi e la pelle chiara, le incontro in una riunione organizzata da Hurriyāt, un’organizzazione nata da poco per rafforzare la coscienza politica dei libici. Durante la riunione, tenuta negli uffici del Majlis Thuwār Trāblus, il Comitato che raggruppa i rivoluzionari non islamici di Tripoli, le due ragazze ascoltano con attenzione, ma quando le interpello direttamente sui bisogni delle organizzazioni per le donne, sono gli uomini a prendere la parola in loro vece (senza chiedere permesso), e le ragazze non aprono bocca… Il femminismo gheddafiano, purtroppo, non ha fatto breccia nella vita associativa. Perché? Forse la risposta sta nel Libro Verde. Il capitolo sulle donne del Libro Verde comincia così: “La donna è prima di tutto un essere umano, e quindi una femmina come l’uomo è un maschio”. E più avanti: “L’uomo e la donna sono diversi. Sono uguali, ma si tratta di un’uguaglianza nella differenza”. Queste affermazioni stabiliscono una visione dell’uguaglianza di genere su principî biologici, una visione che non rimette in discussione il patriarcato e che trovava nella donna-soldato la sua massima espressione: la donna affrancata reclama di essere trattata come l’uomo. Vi ricordate le immagini delle donne in uniforme, le Rāhibāt Thawriyāt, “le Sorelle (è lo stesso termine che si utilizza per una monaca) della Rivoluzione” che accompagnavano il leader? A Misurata, tra i mercenari, la resistenza ha incontrato soldatesse serbe, colombiane e nigeriane, che si dedicavano soprattutto al cecchinaggio. Utilizzavano la Previdenza Sociale, uno dei pochi edifici in mattoni e non in cemento, da cui puntavano i loro lunghi fucili di precisione sulle figure in movimento. La loro femminilità si esprimeva nella cura dei dettagli, straordinaria qualità nelle donne: qualità in questo caso che consisteva nel saper uccidere selettivamente, come quando separi i chicchi di riso neri dal resto.

Misurata è ancora tappezzata di edifici in bilico, l’Ospedale civile (in riparazione), la Previdenza Sociale, il Centro commerciale e tutti gli edifici d’angolo sul viale principale, via Tripoli, che furono teatro degli scontri… Morale: in un paese a rischio, non acquistare un appartamento vicino a edifici sensibili, perché saranno bersaglio del regime o dei ribelli, e la tua dimora una postazione di tiro destinata ad essere distrutta da una delle due parti. Su Maydān al-‘Adāla, Piazza della Giustizia, la piazza principale, si ricorda ancora di un obice lanciato dalle truppe del regime che uccise in un solo colpo 27 persone. Molte armi sono state raccolte in una esposizione permanente sulla Rivoluzione del 17 febbraio, dove è stata installata una galleria fotografica dei circa mille e cinquecento martiri di Misurata, oltre ad immagini strazianti di persone mutilate o bambini feriti. Le prime armi utilizzate dai rivoltosi erano rudimentali: lattine di bevande gassate utilizzate come granate, a base della stessa gelatina usata in mare nella pesca di frodo, o bottiglie molotov della Pepsi. Con la caduta o la cattura dei primi effettivi del regime, l’armamentario dei rivoltosi si arricchì. A Misurata dicono di avere anche recuperato armi di fattura israeliana, acquistate dal Colonnello per intercessione di Mohammad Dahlan, ed arrivate in Libia via mare provenienti da un porto siriano. Gli insorti utilizzavano pure marchingegni fatti in casa, ora visibili al pubblico, come una mitragliatrice automatica montata su una mini-automobile comandata a distanza, oppure una carrozzella, pure comandata a distanza, che funzionava secondo gli stessi principî dell’arte della guerra medievale : rovesciava sul nemico granate con una catapulta rudimentale. Gli insorti sono pure riusciti a convertire un bulldozer in un blindato da guerra, fissando ai suoi lati delle pesanti lastre di acciaio. La collezione di obici è ricca di esemplari di dimensioni diverse, così pure i bazooka o i lanciarazzi da uomo, ma l’oggetto che attira maggiormente la mia attenzione è la testa in metallo leggero di un missile, traforata come un groviera, e capace dunque di penetrare gli edifici come fossero del burro. Ibrāhīm al-Kilāmy dà una spiegazione supplementare alla veloce militarizzazione della rivolta popolare: all’inizio della rivoluzione, il regime lasciò le caserme sguarnite affinché gli insorti potessero recuperare delle armi, per trasformare la protesta pacifica in guerra civile, e giustificare la repressione nel sangue.


Ogni città ha il suo piccolo museo dei martiri. Le cifre dei morti della rivoluzione si aggirano attorno ai cinquantamila caduti, tra insorti, lealisti e popolazione civile. A questi si devono aggiungere i “Mafqūdīn”, i dispersi (è facile incontrare manifesti lungo le strade di Tripoli con la foto, il nome e la data della scomparsa). “Ma tutto quello che vedete qui ora è il Passato” – spiega indicando il cimitero di armi Mohammad Mustafā el-Swayah, un avvocato di Misurata, che ha il viso rotondo di un elfo del Signore degli Anelli. Tra il “Passato” registriamo anche le razioni alimentari per le truppe del Colonnello, rigorosamente italiane, come i crackers delle Forze Armate (in quelle tristi confezioni verde oliva) i tortellini precotti in barattolo, i succhi di frutta in cartone, o le stecche energetiche. Nella sala dell’esposizione hanno piazzato una sedia con lunghi chiodi rivolti verso l’alto che sbucano dall’imbottitura dell’appoggiasedere e dello schienale, e sopra ci hanno scritto in arabo: “Pensaci, prima di sederti sulla sedia del Potere”. Pensiamoci anche noi la prossima volta, prima di addestrare e rifornire le truppe di un dittatore. Siamo fortunati che i libici vogliano bene agli italiani, ma non ce lo meritiamo, per tutti i tappeti rossi srotolati davanti al Colonnello pur di godere di forniture di gas e di retate detentive nei confronti degli immigrati. Quando poi non ci conveniva più, abbiamo tradito un regime in agonia, e giustamente gli uomini del Colonnello hanno dato fuoco all’ambasciata italiana di Tripoli. Ora Bruno Dalmasso, un signore italiano nato nel Corno d’Africa ed ormai in Libia da molti anni, si è assunto il difficile compito di salvare e ricatalogare i documenti storici risparmiati dal fuoco e con essi la storia degli italiani di Libia, dopo essersi occupato per anni del nostro cimitero di Tripoli.

Bāb al-‘Azīziya, la leggendaria residenza del Colonnello che occupava una superficie di ben sei kmq, non è ora che un cumulo di macerie. Non accessibile alla vista del comun mortale, era sempre circondata da soldati e forze di sicurezza. Sulla strada per l’aeroporto, quando passavi al lato in mezzo motorizzato, non giravi nemmeno la testa per paura di destar sospetto tra le guardie. Nessuno sapeva cosa ci fosse dietro quel muro dipinto di verde. Gheddafi non amava né la curiosità, né la celebrità (altrui). Istituì un comitato per la lotta contro la fama, incaricato di prevenire l’emergenza di qualsiasi caso di celebrità tra i libici. Perfino le partite di calcio erano commentate senza dare un nome ai giocatori: “Il 10 batte il calcio d’angolo. Colpo di testa del difensore numero 3 del Tripoli; la palla cade fuori area, la riprende l’8 del Benghazi, che lancia in avanti sull’ala destra il 7, che dribbla il 4 del Tripoli, si smarca e tira un cross alto che però cade dietro la rete difesa dal portiere. Peccato, in area erano ben piazzati ben tre giocatori del Benghazi, il 9, l’11 e il 5, che aveva raggiunto l’area avversaria dalle retroguardie”. Immaginatevi una cronaca così, mentre lo stadio è circondato di immagini del Colonnello, il Grande Supervisore. Le immagini del Colonnello erano una cosa ossessiva, come ossessiva era la sua paura che qualcuno fosse più famoso di lui. Il Colonnello – Strega della favola di Biancaneve si guardava allo specchio tutti giorni e lo interrogava: “Chi minaccia la mia incontrastata immagine di Guida unica, assoluta ed esemplare?”. Un giorno si rese conto che una telenovela era diventata un appuntamento di passione tra i libici. Decise allora di cancellarne la trasmissione, e di fare riprendere il suo stivale. Quando il giorno seguente i libici accesero la televisione al consueto orario, al posto della telenovela si trovarono nello schermo il suo stivale, che venne trasmesso per molti giorni di seguito.


Orgoglio e disonore hanno fatto saltare i nervi ai libici. “Noi eravamo cittadini normali, stavamo bene con le nostre famiglie e conducevamo una vita dignitosa, ma quando abbiamo sentito Gheddafi insultarci dopo le prime manifestazioni, dandoci del “Sorci da fogna (Jūrdhān)” o “Peli della testa”, abbiamo preso la cosa personalmente e ci siamo armati” – spiega ‘Abdallah Nākir, il capo del Majlis Thuwār Trāblus. Parla con calma e ti guarda dritto negli occhi senza battere ciglio, né fare un sorriso non necessario. ‘Abdallah porta la barba corta ed è molto rispettato; ha constituito il Partito della Cima (Hizb al-Qumma), perché vuole che il suo paese raggiunga il vertice, dia il meglio e produca il meglio. Questo partito è l’ala politica del movimento. “Abbiamo molti giovani combattenti che vorrebbero riprendere la vita civile, ma abbiamo bisogno di sostegno”. Il governo dà la possibilità ai giovani ex-combattenti di entrare nell’esercito o nella polizia, oppure di riguadagnare il proprio posto di lavoro, oppure ancora di intraprendere una nuova carriera attraverso un programma di inserzione sociale, ma le risorse sono scarse. “Vogliamo imparare a costruire un partito e a fare attività politica”. Quando gli propongo di fare incontrare i giovani ex-combattenti libici con altri ex-combattenti palestinesi e israeliani, o irlandesi e bosniaci che hanno abbandonato la lotta armata, risponde che va bene – purché non si tolgano tutti i giovani dalle strade e dalle frontiere: il paese ne ha ancora bisogno.

Gli europei intervengono in diverse aree e il personale UE fa la spola tra Bruxelles e Tripoli per mettere in piedi un programma di sostegno dopo l’altro: con ACTED per formare la società civile, con EUNIDA per formare le istituzioni a dialogare con la società civile, con Common Purpose per rafforzare la leadership tra i giovani, con IDEA per accompagnare il processo elettorale, con il Center for Humanitarian Dialogue per la riconciliazione nazionale, con IRCT e l’Organizzazione mondiale contro la tortura per la riabilitazione delle vittime di queste pratiche. Ormai i libici fanno parte della comunità euromediterranea dei beneficiari dei programmi europei; entra la Libia ed esce la Siria; finisce l’incubo libico e comincia quello siriano. A Zāwiya, Mufīda Khalīl al-Masrāty, attivista dell’Unione patriottica Lībya Jadīda, distribuisce una dichiarazione che ringrazia le istituzioni internazionali per il loro sostegno. Chiedo a un’attivista qual’è la nazione più amata tra i libici, e la Francia arriva prima in classifica, seguita dall’Italia, ma quando indago su con chi preferiscono lavorare e vivere, l’Italia supera la Francia. Pensare che i tunisini, dopo la fuga di Ben Ali, scherzavano dicendo: “Libia, abbassati un poco affinché il nostro grido di vittoria arrivi alle orecchie del Faraone Mubarak”. Non consideravano i libici capaci di alzare la testa contro il Colonnello. Invece, il Colonnello è stato giustiziato e Ben Ali sorseggia ancora bevande succose in un giardino di Riyad. Anzi, peggio: se prendete un aereo di Tunis Air, consultate le informazioni sullo schermo piazzato davanti al vostro posto, e andate sotto “Sistema politico”, in una delle versioni linguistiche disponibili. Leggerete ancora (io l’ho letto il 9 gennaio 2012) : “Presidenziale; il presidente è eletto per un mandato di 5 anni. Presidente della Repubblica: Zine el-Abidine Ben Ali”! Neppure la bandiera han cambiato i tunisini, mentre ora quella libica ha tre colori come quelli del drappo francese o italiano: sotto la Luna Crescente e la Stella, il rosso del sangue dei rivoluzionari, il nero del lutto delle famiglie e il verde del futuro della Nazione.


Certo il paese ha bisogno di aprirsi, ma i libici ce la faranno. Luay el-Bashty, un giovane di Zāwiya che ha creato Tajammuu Shabāby at-Taghrīr, Assemblea dei giovani per il cambiamento, chiede che fondazioni internazionali come la Fondazione Anna Lindh aiutino i ragazzi a tutelare la “cultura della strada”, dove la resistenza all’appiattimento del regime ha tenuto, e dove è iniziata la rivolta. Altri chiedono di formare osservatori elettorali, una signora distinta chiede di investire nell’istruzione, altri di attivare programmi specifici per i bambini, altri ancora di creare circoli locali di dialogo cittadino. “Questi giovani meritano di più” – mi dice Bruno Dalmasso. Bruno parla molto delle sue peripezie personali, il ristorante turco in cui pranziamo potrebbe svuotarsi molto tempo prima che lui finisca di parlare dei suoi primi vent’anni. Nel tavolo dietro di me siedono degli uomini libici che mangiano abbondantemente, alcuni di loro portano una mimetica: “Questi sono quelli che picchiano” – avverte Bruno con voce dimessa. “È cambiato il governo, ma questi sono gli stessi che torturavano i poveracci per conto di Gheddafi”. Secondo lui, gli Shabāb libici hanno ragione a manifestare il 17 febbraio, un anno dopo l’inizio della rivoluzione libica. C’è ancora molta pulizia da fare, e questa è una delle ragioni per cui molti Shabāb non vogliono cedere le armi. È difficile abbandonare le armi quando sono diventate uno status symbol. Alle porte delle città costiere, giovani armati sorvegliano il transito veicolare e salutano tutti coloro che passano sotto uno pseudoarco edificato mettendo dei container di metallo uno sopra l’altro, come una costruzione del Lego. Alcuni dei container sono pieni di sabbia, e sono molto probabilmente gli stessi che venivano utilizzati come barriere anti-proiettili durante i combattimenti. A Misurata incontro quattro giovani ex-combattenti, il più eloquente parla un dialetto stretto che anche la mia collega egiziana Rashā Sha’bān capisce con difficoltà. “Ma sapevate sparare?”. “Per niente. Era un esercizio di iniziazione che dovevamo affrontare tutti”. Mentre quei ragazzi si gettavano nella mischia, le donne si preoccupavano di assistere le famiglie e di distribuire i viveri nel vicinato durante l’assedio. Zaynab Muhammad Mātita è stata una di loro. Durante l’assedio, si era imbarcata su una nave diretta ad Alessandria d’Egitto per accompagnare la figlia ammalata all’ospedale, e una volta in Egitto ha conosciuto degli attivisti, ed ha ereditato la passione della militanza civica. Al ritorno, circa tre mesi dopo, quando Gheddafi era un uomo morto, fonda Huqūq bilā Hudūd, Diritti senza Frontiere, e diventa una delle giovani donne più attive della città. Nonostante i tre figli.

Questo paese che fino a pochi anni fa era un buco grigio nelle mappe delle diplomazie e delle istituzioni internazionali, che i tunisini avrebbero voluto sprofondasse per far correre il vento della rivoluzione più veloce, in cui i pavimenti sono scivolosi perché il Colonnello aveva comprato la coscienza collettiva con marmi e inni rivoluzionari, questo paese con un nome impossibile coniato dalla logorrea di chi credeva di essere indispensabile ed insostituibile – “Grande Stato Arabo Libico delle Masse Popolare e Socialista” – potrebbe sorprenderci recuperando velocemente il tempo che il Colonnello aveva congelato facendo un patto con il Diavolo (e Potenti e Prepotenti della regione), e andando nella modernizzazione più lontano dell’Egitto o della Giordania. Questi rivoluzionari, che hanno portato nei palazzi ministeriali dei giovani e degli intellettuali, come Fathī Terbīl, incluso tra i Pensatori Globali 2011 dalla rivista Foreign Policy, hanno anche il tempo di organizzare sottoscrizioni popolari per raccogliere fondi per le vittime del criminale regime siriano.

I libici hanno il senso dell’ironia, ma soprattutto quello dell’orgoglio. ‘Omar, un giovane avvocato del Centro libico per la democrazia e la cittadinanza, racconta una barzelletta:”Un giovane libico viaggia ad Alessandria d’Egitto. La sera esce con un ragazzo e due ragazze egiziani. Di fronte al mare, una delle ragazze dice all’amico egiziano: “Hai visto la luna su in cielo?”. “Meravigliosa visione, o Perla del mio cuore” – risponde lui . Fatto qualche passo, l’altra ragazza prende coraggio e dice al ragazzo libico: “Hai visto la luna su in cielo?”. “Certo, perché? È proprio qui davanti!”. Senza preliminari, con lo stesso spirito svelto, la vigilia del 25 gennaio, anniversario della rivoluzione egiziana, i cittadini libici, esasperati per l’indolenza, la disorganizzazione e la prepotenza delle autorità dentro la loro sede diplomatica, dopo aver perso la pazienza per aver fatto ripetutamente la coda, avevano sfondato le porte dell’ambasciata libica al Cairo, messo sottosopra gli uffici e menato doverosamente l’ambasciatore (con il risultato che per fare il visto per la Libia sono dovuto andare fino a Tunisi). In fatto di coraggio e intraprendenza, non hanno nulla da imparare. Hanno bisogno di una dritta sulle spazzature, visto che con la rivoluzione non hanno trovato di meglio che utilizzare le strade secondarie fuori-città per scaricare sacchi di immondizia sui lati, di una sull’arte del caffé e forse anche sull’umorismo. Se per le spazzature come italiani è meglio che non interferiamo, visto come abbiamo gestito l’emergenza a Napoli, in fatto di caffetterie, terrazze e gusto per le buone cose, possiamo decisamente migliorare lo standard dei locali tripolitani. Per quanto riguarda l’umorismo, proporrei di fare circolare una mostra con tutte le numerosissime espressioni di stima e apprezzamento e le dichiarazioni dei personaggi del mondo della politica e dell’economia italiane (ex-Presidente del Consiglio in primis) sui meriti del governo illuminato del Colonnello. Vi assicuro che inietteremmo una buona dose di ilarità nello spirito libico. Anche se non escludo il rischio che qualcuno possa fare la fine dell’ambasciatore libico del Cairo.

Gianluca Solera,  6 febbraio 2012


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"Amo ricercare, leggere, studiare ogni profilo dell'umanità, ogni avvenimento, perciò mi interesso di notizie e soprattutto come renderle ad un pubblico facilmente raggiungibile come quello della net. Mi piace interagire con gli altri e dare la possibilità ad ognuno di esprimere le proprie potenzialità e fare perchè no, nuove esperienze." Eleonora C.

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