Hannah Arendt la banalità del male, il nazismo e la Shoah
Hannah Arendt nasce a Linden, 14 ottobre 1906 è conosciuta per essere stata una filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense.
Chiaramente la Arendt nasce da una famiglia ebraica, frequenterà il meglio della Germania compreso Martin Heidegger all’Università di Marburgo, con cui ebbe persino una relazione d’amore.
Arendt però odia il nazismo e così presto si separa anche dal suo grande maestro.
Sebbene la Arendt si laurei presto, non potrà mai insegnare in Germania a causa delle sue origini ebraiche, è così che la giovane filosofa si rifugia a Parigi. Qui ha la sua crescita. Tra i suo testi principali si devono ovviamente ricordare La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme un puntuale resoconto del processo ad Eichmann per il New Yorker.
E’ qui che la Arendt ha sollevato la questione del nazismo sottolineando come il male possa non essere radicale: anzi è proprio l’assenza di radici, di memoria, del non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con se stessi ( che uomini spesso banali si trasformano in autentici agenti del male. È questa stessa banalità a rendere, com’è accaduto nella Germania nazista, un popolo acquiescente quando non complice con i più terribili misfatti della storia ed a far sentire l’individuo non responsabile dei suoi crimini, senza il benché minimo senso critico.
Nella banalità del male, Hannah Arend non vi è un vero e proprio reportage sul processo al gerarca nazista , ma dal dibattimento in aula, infatti, la Arendt ricaverà l’idea che il male perpetrato da Eichmann – come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della Shoah – fosse dovuto non ad un’indole maligna, ben radicata nell’anima (come sostenne nel suo Le origini del totalitarismo) quanto piuttosto ad una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni.
”La storia ebraica moderna, che ha avuto inizio con gli ebrei di corte ed è continuata con gli ebrei milionari e filantropi, è pronta a dimenticare un’altra tendenza della tradizione ebraica: quella di Heine, Rahel Varnhagen, Scholem Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka, o persino Charlie Chaplin. Si tratta della tradizione di una minoranza di ebrei che non hanno voluto diventare dei nuovi ricchi, che hanno preferito la condizione di ‘pariah consapevoli’. Tutte le vantate qualità ebraiche – il ‘cuore ebraico’, l’umanità, lo humor, l’intelligenza disinteressata – sono qualità del pariah”.
Non solo, Arendt non indica quale sia la reale natura di tale male, ma si limita a indicarne i luoghi in cui esso è nato: i lager. Ella è altresì convinta che, per capire il totalitarismo (e questo è l’obiettivo della sua opera del ’51), si debbano innanzitutto capire i lager, ossia quei luoghi in cui la logia del male radicale si è sviluppata appieno. Ma usare i lager per capire il totalitarismo equivale, naturalmente, a chiedersi quale fosse la funzione dei lager: a tal proposito, Arendt esclude in blocco tutte le possibili risposte utilitaristiche, secondo le quali i lager sarebbero serviti a qualcosa; al contrario – ella nota – essi non sono fabbriche finalizzate alla produzione di qualche cosa, né volte a creare cadaveri. Certo, quella che nei lager si compiva era una forma di annichilimento dell’uomo, giacché egli era in primo luogo annullato come individuo non appena, nel lager, gli erano negate una nazione e una giuridicità, e, in secondo luogo, era azzerato sul piano morale, nella misura in cui – nel lager – i classici problemi morali perdevano ogni significato (tale è il caso in cui alla madre è chiesto quale dei suoi figli preferisce che muoia per primo).
Il ragionamento per la filosofa si lega sicuramente con l’analisi del termine termine “ideologia” ovvero”ciò che vale per la teoria, deve necessariamente valere anche per la prassi“; o anche quello latino: “fiat veritas ac pereat mundus“. E’ esattamente questo che si è verificato ad Auschwitz, dove i nazisti hanno tentato di concretare la loro perversa teoria: per mettere in evidenza ciò, Arendt si sente in dovere di dimostrare come l’orrore nazista si sia realizzato in virtù del fatto che il mondo è svanito, ossia è caduta quella pluralità che garantiva resistenza, giacché l’ideologia, per funzionare, non ha bisogno dell’io e del mondo: essa è, piuttosto, un parto della mente, un monologo paranoico, un’evasione dal reale.
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