Appellare con il termine “mantenuto” il proprio partner va considerato solo una mancanza di rispetto o è un comportamento punibile dalla legge?
Una frase che si sente spesso risuonare all’interno delle mura domestiche, a volte con tono scherzoso, ma assai più di frequente con intento polemico e offensivo del partner (in genere la donna) è la assai nota “E io pago…”..
Eppure, non va dimenticato che, al momento della celebrazione del matrimonio, sia che si scelga il solo rito civile, che in caso di rito religioso, il celebrante dà lettura ai coniugi degli articoli del codice civile che riguardano i loro diritti e i doveri.
Tra questi viene ricordato l’obbligo alla collaborazione nell’interesse della famiglia attraverso il contributo che ciascuno deve fornire sia in relazione alle proprie sostanze che alla capacità di lavoro professionale o casalingo. (Art. 143 cod. Civ)
Tutto questo vuol dire, in altre parole, che la legge attribuisce, in ogni caso, rilevanza all’attività, se pur non produttiva di reddito, di una delle parti (di solito la moglie).
Pertanto, il coniuge che apporti il contributo alla famiglia con il proprio reddito non può chiedere al giudice, in caso di separazione, che questa sia addebitata al partner che non abbia lavorato oppure rifiutarsi di versargli il mantenimento.
Durante il matrimonio, entrambi i coniugi contribuiscono a formare il tenore di vita della famiglia, ma gli apporti di ciascuno non devono consistere – necessariamente – in contributi economici; possono consistere anche in altre attività interne al nucleo familiare non produttive di reddito visibile. Ad esempio, il contributo di un coniuge, rappresentato dal lavoro casalingo o dalla cura dei figli, determina un sicuro vantaggio sul nucleo familiare anche in termini di risparmio economico, poiché consente di fare a meno, in tutto o in parte, di colf o baby sitter.
Costituisce quindi una sicura forma di “maltrattamento in famiglia” (art. 572, comma 1, cod. pen.), e come tale punibile dalla legge penale, il comportamento di quel coniuge che denigri abitualmente il partner che non lavora, sminuendo, in tal modo, l’importanza dell’apporto comunque fornito al ménage familiare, se pur non in termini strettamente economici.
In tal senso si è pronunciata la Cassazione, che ha con ha condannato per “maltrattamenti” un marito che era solito offendere la moglie, dandole della “mantenuta”. (Cass. sent. n. 40845/12.)
Nel caso in esame la donna non era ancora laureata né impegnata in alcuna attività lavorativa. Tra l’altro, prima di lasciare la casa coniugale, l’uomo l’aveva svuotata di tutti i mobili e gli arredi che aveva acquistato col proprio denaro.
Foggia, 19 dicembre 2013 Avv. Eugenio Gargiulo