Stabilire attraverso un contratto l’obbligo di eseguire una prestazione sessuale non è reato, ma l’eventuale contratto sottoscritto è nullo!
E’ proprio di questi ultimi giorni la notizia di un politico che avrebbe stipulato un contratto scritto con la propria segretaria per ottenere da quest’ultima delle prestazioni sessuali periodiche in cambio di denaro.
Al di là delle inevitabili riflessioni etiche, il fatto che tale accordo sia stato firmato da una persona “di legge” ha insinuato in molti la convinzione che ciò sia possibile e lecito. E difatti, per alcuni versi, è vero.
Per comprendere come stanno davvero le cose, bisogna fare una distinzione, che è poi la bipartizione principale di tutto il diritto: dobbiamo cioè separare la questione di carattere civilistico da quella penale. Cominciamo da quest’ultima.
Rompendo un luogo comune, chiariamo che la prostituzione non è un reato e, quindi, non costituisce un illecito per la nostra legge. I cittadini possono liberamente pagare per ottenere prestazioni sessuali purché ciò non avvenga in pubblico. Quel che è illecito, al massimo, è lo sfruttamento – da parte di terzi – della prostituzione.
Dunque, nel caso del politico appena citato, questi non ha commesso alcun reato. Non lo ha, invero, commesso né lui, né la presunta segretaria. E nessuno li potrà condannare per questo (tutt’al più li si potrà biasimare).
Analizziamo invece la questione sotto un aspetto civilistico, ossia riguardo alla possibilità che un simile accordo produca degli effetti sul piano giuridico tutelabili da qualsiasi giudice. In altre parole, esistono dei contratti dai quali la legge fa discendere delle conseguenze e degli altri invece che sono come carta straccia. Quando, infatti, la legge riconosce che un contratto è valido, in caso di inadempimento di una delle due parti l’altra può andare dal giudice per ottenere una condanna all’adempimento forzato o al risarcimento del danno.
Ebbene, su questo piano – ossia quello del diritto civile – il contratto di “prestazioni sessuali” non ha alcun valore, ossia non produce effetti. Questo perché il nostro codice civile stabilisce che i contratti contrari al buon costume si considerano nulli (gli avvocati dicono che “la causa del contratto” è nulla).
Per la legge, dunque, un contratto con una prostituta o con chiunque offra prestazioni sessuali in cambio di denaro è come se non fosse mai stato stipulato e, in caso di inadempimento di una delle due parti, l’altra non potrà ricorrere al giudice per ottenere tutela. Per esempio: l’uomo non potrà andare dal giudice rivendicando di essere rimasto insoddisfatto, né la donna potrà chiedere un decreto ingiuntivo nei confronti del cliente moroso nel pagamento.
Al massimo, la prostituta che non è stata pagata potrebbe sostenere, suo favore, la tesi della violenza sessuale (c’è stato un caso di qualche anno fa proprio di questo tipo)
E se la clausola delle prestazioni sessuali si inserisce all’interno di un altro contratto? Che succede, però, se l’accordo per ottenere i “favori carnali” è solo una clausola inserita all’interno di un normale e valido contratto (come quello, appunto, della prestazione lavorativa di una segretaria)? In tal caso, la legge prevede la nullità della sola clausola, mentre il resto del contratto resta valido. Tuttavia, se risulta che, nelle intenzioni delle parti, la clausola rivestiva un ruolo determinante (tanto che le stesse parti non avrebbero concluso il contratto senza quella “postilla”), allora è nullo tutto il contratto!
Foggia, 8 gennaio 2014 Avv. Eugenio Gargiulo