Editoriali

Anita B, non è solo un film sull’olocausto Ecco come lo spiega Roberto Faenza

Anita B, non è solo un film sull'olocausto Ecco come lo spiega Roberto Faenza Anita B., nuovo film di Roberto Faenza,  torna sul tema dell’Olocausto, anche se questa volta guardando il “dopo” di un’adolescente, Anita (Eline Powell) appunto, che fatica a reinserirsi un una società che rifiuta l’orrore a cui è sopravvissuta. Il film, basato sul romanzo “Quanta stella c’è nel cielo” di Edith Bruck, racconta la storia di Anita, un’adolescente di origini ungheresi sopravvissuta ad Auschwitz, accolta dall’unica parente rimasta viva: Monika. Nella nuova casa Anita si trova ad affrontare una realtà inaspettata: nessuno, neppure l’attraente Eli, con cui scoprirà l’amore, vuole ricordare il passato.
“Non mi piace l’idea di fare la vittima – dice Faenza – ma credo ci sia un equivoco su questo film, che nasce dalla parola Auschwitz. Ma questo è un film sul dopo. Viviamo lo stesso problema di Anita. Non è un film sull’orrore, è un altro genere”. Poi passa alla sua pellicola. “Non volevo leggere questo libro, mi sembrava di avere già dato sull’olocausto. Ma dopo il suggerimento di Furio Colombo l’ho preso e ho finalmente capito che era tutt’altro. Mi piaceva il candore di questa ragazzina, che non capisce ciò che vive dopo l’atrocità che ha vissuto, il perché tutti vogliano cancellare ciò che è successo. E di fatto anche lei. Un po’ come in Napoli milionaria capita al “reduce” Eduardo”.

Tra le attrici principali c‘è anche Andrea Osvart, nel racconto zia algida e dolente della protagonista. “Ho lottato tanto per questo ruolo, sono un’ungherese che interpreta un’ungherese, e per me questo è importante. Ho convinto Roberto che ero la scelta migliore e ho dovuto lavorare tanto per essere all’altezza di ciò che avevo promesso. Ricordando gli anni da sola, i primi, in Italia, senza famiglia e amici, ce l’ho fatta e ho cercato quel tipo di stato d’animo per interpretare Monika. Ho cercato di cambiare percorso come attrice, perché io ho sempre voluto fare questo. Poi certo ho fatto nel 2008 la valletta di Sanremo e dopo ho dovuto far capire che la mia immagine, la mia professionalità era un’altra. Così sono andata a stare due anni in America per “ripulirmi”, non amo la tv”.
Nel cast troviamo anche un’icona dei teenager, Robert Sheenan, per la sua presenza nella serie tv Mistifs, qui alle prese con Eli, giovane tanto bello quanto cinico. “Certo, è egoista, ma volevo anche sottolinearne lo charme e il fascino. E far capire anche che non ha fiducia nel mondo, che un bambino non lo vuole perché è del mondo che conosce e che si prospetta nel futuro che lui ha paura. Dietro ha l’olocausto, davanti il conflitto in medio oriente: così fare un figlio gli sembra un torto inaccettabile da fare a quella creatura”.
Avvicinandosi il giorno della memoria (il 27 gennaio) Faenza tiene a sottolineare quello che sente come un problema molto attuale. “Il nostro problema enorme è la televisione, la nemica numero uno della memoria, tutto si perde in poche ore, il cinema è il contrario, rimane.

Questo, ripeto, non è un film sull’olocausto, ma sulla memoria e per questo mi rende fiero il fatto che l’opera sarà proiettata per aprire la giornata della memoria a Gerusalemme allo Yad Vashem, nella programmazione del festival di Gerusalemme”. Incantevole come nel film, Eline Powell svela le paure che ha avuto prima di diventare Anita B. “Temevo fosse un personaggio difficile, pesante, sapendo il viaggio che aveva fatto, fisicamente e moralmente. Ma quando ho ricevuto tutto il copione mi sono innamorata di lei, del suo splendido percorso emotivo, della Auschwitz che si portava dentro. E sono andata in un lager in Belgio per capirla meglio e posso solo dire che non lo dimenticherò mai. Lei è sopravvissuta a tutto quell’orrore, ma è anche portatrice di amore e speranza, da attrice dovevo saper incarnare entrambe. Sentivo dentro il suo istinto di sopravvivenza”. Tra i pochi personaggi positivi c‘è Sara, interpretata da una splendida Jane Alexander, nella parte di chi organizza i viaggi degli ebrei in Palestina, i futuri pionieri d’Israele. “Io sono una buona e per me è già particolare, di solito mi fanno fare la cattiva. Peccato aver avuto una pistola e non averla usata, peró!”. Ride, di gusto, poi prosegue seria. “Sara è una traghettatrice verso la felicità, mi piace questa donna con le palle, è una che io vorrei essere. Ringrazio Roberto per avermi riportato al cinema”. Ed è grato al cineasta anche
Moni Ovadia, qui rabbino e punto di riferimento della sua comunità ebrea ungherese in Cecoslovacchia. “Sono debitore a Roberto perché mi ha consentito di vivere questo film, per le relazioni personali e per ciò che è successo sul set. Io non mi prendo meriti, ho nuotato nel mio stagno. Da anni mi occupo di cultura yiddish e ebraismo del centro-est europeo. Questo rabbino, per me, forse è stato un resistente, un combattente, e nel film è uno che deve riportare il suo gregge alla vita. Non lo vedo come un sionista, è solo uno che celebra il dovere di vivere, la centralità dell’uomo fragile, tipica visione di quel territorio, di quelle comunità”. Ascoltando il suo attore
Faenza riflette su un filo rosso che lega la sua cinematografia. “Qui Anita combatte una battaglia simile a Sabina di Prendimi l’anima, Anita è un po’ sua figlia, entrambe cercano e combattono per la loro identità”.

(ITALPRESS).

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