Salute

La sclerosi multipla e i depositi di ferro nel cervello

ferro2014Come noto, secondo il prof. Paolo Zamboni (Direttore del Centro Malattie Vascolari dell’Università di Ferrara), una delle conseguenze dell’insufficienza venosa cronica cerebrospinale (CCSVI), da lui stesso scoperta nel 2007 nei malati di sclerosi multipla, è la presenza di depositi anormali di ferro nel cervello.

Nel 2009 il prof. Zamboni assieme al prof. Ajay Vikram Singh ha pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Cerebral Blood Flow & Metabolism un interessante articolo intitolato “Flusso sanguigno venoso anomalo e depositi di ferro nella sclerosi multipla“.

Secondo i due autori, la sclerosi multipla (SM) è principalmente una malattia autoimmune di origine sconosciuta. La loro recensione si è concentrata sul sovraccarico di ferro e sullo stress ossidativo come causa circostante che porta all’immunomodulazione nella SM cronica. Il sovraccarico di ferro è stato dimostrato nelle lesioni della SM, come una caratteristica comune con altre patologie neurodegenerative. Tuttavia, la recente descrizione dell’insufficienza venosa cronica cerebrospinale (CCSVI) associata alla sclerosi multipla, con anomalie significative nell’emodinamica del deflusso cerebrale venoso, permette di proporre un parallelo con i disturbi venosi cronici (CVDs) nel meccanismo di deposito del ferro. Un reflusso venoso cerebrale anormale è peculiare alla SM, e non è stato trovato in una miscellanea di pazienti affetti da altre patologie neurodegenerative caratterizzate da depositi di ferro, come il Parkinson, l’Alzheimer, la sclerosi laterale amiotrofica. Diversi studi pubblicati di recente supportano l’ipotesi che la SM progredisce lungo il sistema vascolare venoso. La particolarità dei disturbi cerebrali venosi del flusso sanguigno correlati alla CCSVI, insieme con l’istologia degli spazi perivenosi e i recenti risultati da tecniche di imaging a risonanza magnetica avanzata, secondo gli autori supportano l’ipotesi che i depositi di ferro nella SM siano una conseguenza dell’alterato ritorno venoso cerebrale e dell’insufficiente drenaggio venoso cronico.

Nel 2011 un team dell’Università di Buffalo coordinato dal prof. Robert Zivadinov ha pubblicato sulla rivista scientifica BMC Neuroscience un articolo intitolato “Depositi di ferro e infiammazione nella sclerosi multipla. Quale avviene prima?”.

Secondo questi ricercatori americani non è chiaro in questo momento se i depositi di ferro siano un epifenomeno del processo della sclerosi multipla (SM) o possano svolgere un ruolo primario nel provocare l’infiammazione e lo sviluppo della malattia, e dovrebbero essere studiati nelle prime fasi della patogenesi della malattia. Tuttavia, è difficile studiare la relazione tra i depositi di ferro e l’infiammazione all’inizio della SM a causa del ritardo tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi, e della scarsa disponibilità di campioni di tessuto. In un recente articolo pubblicato su BMC Neuroscience, Williams e altri hanno indagato il rapporto tra l’infiammazione e i depositi di ferro utilizzando un modello animale originale definito come “encefalite autoimmune sperimentale“, che sviluppa i depositi di ferro perivascolari del SNC. Tuttavia, il contributo relativo dei depositi di ferro sull’infiammazione nella patogenesi e nella progressione della SM rimane sconosciuto. Ulteriori studi dovrebbero stabilire l’associazione tra l’infiammazione, la riduzione del flusso sanguigno, i depositi di ferro, l’attivazione della microglia e la neurodegenerazione. Secondo gli autori la creazione di un modello animale rappresentativo che possa studiare autonomamente tale rapporto sarà il fattore chiave in questo sforzo.

Nel 2013 un team americano coordinato dal prof. Veela Mehta ha pubblicato sulla rivista scientifica Plos One uno studio intitolato “Il ferro è un marcatore sensibile dell’infiammazione nelle lesioni della sclerosi multipla”.

Secondo gli autori l’imaging di fase a risonanza magnetica nei pazienti con sclerosi multipla (SM) e nei tessuti autoptici ha dimostrato la presenza di depositi di ferro nelle lesioni della sostanza bianca. L’accumulo di ferro in alcune, ma non tutte le lesioni, suggerisce uno specifico processo potenzialmente rilevante con la malattia; tuttavia, la sua importanza fisiopatologica rimane sconosciuta. E’ stato esplorato il ruolo del ferro lesionale nella sclerosi multipla utilizzando degli approcci multipli: l’esame immunoistochimico del tessuto autoptico di SM, un modello di captazione del ferro in vitro nei macrofagi umani in coltura con imaging di risonanza magnetica ad alto campo magnetico e di pazienti con sclerosi multipla altamente attiva e secondariamente progressiva. Utilizzando il Blu di Prussia e l’immunoistochimica, il ferro è stato rilevato nelle aree di tessuto di SM prevalentemente di macrofagi/microglia di non fagocitosi a margine delle lesioni demielinizzanti. Inoltre, i macrofagi contenenti ferro, ma non i macrofagi che caricano la mielina, hanno espresso marcatori di polarizzazione pro-infiammatoria (M1). Allo stesso modo, nelle culture di macrofagi umani, il ferro era preferenzialmente avvolto da macrofagi polarizzati in M1 da non fagocitosi, e a (super) polarizzazione indotta in M1. La captazione del ferro era minima nei macrofagi che caricano la mielina e la fagocitosi attiva della mielina portava alla deplezione del ferro intracellulare. Infine, è stato dimostrato nei pazienti con SM utilizzando imaging di fase con sequenze di risonanza magnetica cine gradient eco che le lesioni in fase ipointensa erano significativamente più frequenti nei pazienti con SM recidivante attiva piuttosto che secondariamente progressiva. Secondo gli autori nell’insieme, i loro dati forniscono una base per interpretare il ferro con imaging di fase con sequenze di risonanza magnetica cine gradient eco nei pazienti con SM: il ferro è presente nella microglia/macrofagi da non fagocitosi polarizzata in M1 ai margini delle lesioni demielinizzanti cronicamente attive della sostanza bianca. L’imaging di fase può quindi visualizzare nello specifico l’attività pro-infiammatoria cronica nelle lesioni dimostrate della SM e quindi fornire importanti informazioni cliniche sullo stato della malattia e sull’efficacia dei trattamenti nei pazienti con SM.

Infine, nel 2014 è stato pubblicato sulla rivista scientifica ASN Neuro un articolo intitolato “Chelazione del ferro e sclerosi multipla“.

Secondo alcuni ricercatori americani, studi istochimici e di risonanza magnetica (MRI) hanno dimostrato che i pazienti con SM (sclerosi multipla) hanno depositi anormali di ferro in entrambe le strutture della materia grigia e bianca. I dati che stanno emergendo indicano che questo ferro può partecipare alla patogenesi con vari meccanismi, ad esempio, promuovendo la produzione di specie reattive dell’ossigeno (radicali liberi) ed aumentando la produzione di citochine pro-infiammatorie. La terapia ferrochelante potrebbe essere una strategia praticabile per bloccare gli eventi patologici correlati al ferro o può conferire protezione cellulare stabilizzando il fattore di trascrizione HIF1α, un fattore di trascrizione che risponde normalmente alle condizioni di ipossia. La chelazione del ferro è stata dimostrata nel proteggere contro la progressione della malattia e/o limitare l’accumulo di ferro in alcuni disturbi neurologici o nei loro modelli sperimentali. I dati provenienti da studi che somministravano un chelante agli animali con encefalomielite autoimmune sperimentale, un modello di SM, sostengono le motivazioni per esaminare questo approccio terapeutico nella SM. Studi clinici preliminari sono stati condotti nei pazienti con SM con la deferoxamina. Anche se sono stati osservati alcuni effetti collaterali, la grande maggioranza dei pazienti era in grado di tollerare il duro regime di somministrazione, cioè 6-8 ore di infusione sottocutanea, e tutti gli effetti collaterali si sono risolti con l’interruzione del trattamento. È importante sottolineare che questi studi preliminari non hanno individuato un evento dequalificante per questo approccio sperimentale. I chelanti più recentemente sviluppati, deferasirox e deferiprone, sono più appropriati per un possibile uso nella SM data la loro somministrazione per via orale, e, soprattutto, il deferiprone può attraversare la barriera emato-encefalica. Tuttavia, secondo gli autori, le esperienze da altre condizioni indicano che il rischio di eventi avversi durante la terapia chelante richiede un attento monitoraggio del paziente ed un regime di somministrazione attentamente ponderato.

Fonti:

http://www.nature.com/jcbfm/journal/v29/n12/abs/jcbfm2009180a.html

http://www.biomedcentral.com/1471-2202/12/60

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0057573

http://www.asnneuro.org/an/006/an006e136.htm

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Alessandro Rasman

Alessandro Rasman, 49 anni, triestino. Laureato in Scienze Politiche, indirizzo politico-economico presso l'Università di Trieste; è malato di sclerosi multipla, patologia gravemente invalidante, dal 2002. Per Mediterranews cura una speciale rubrica sulla sclerosi multipla.

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