Un team di ricercatori italiani a caccia dei perché della sclerosi sistemica
L’AILS, l’Associazione Italiana Lotta alla Sclerodermia, con il progetto “Irene Tassara”, finanzia uno studio integrato sulla sclerodermia, condotto dalle Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Politecnica delle Marche, e degli Studi di Verona, per scoprire quali meccanismi attivano la malattia e valutare nuove molecole farmacologiche più efficaci.
Milano, 11 luglio 2016 – Colpisce soprattutto le donne tra i 30 e i 50 anni, ma quante siano con esattezza le persone che soffrono di sclerosi sistemica non lo si sa ancora. Si può solo fare una stima dei casi in Italia, circa 10 ogni 100.000 abitanti. Perché questa malattia, anche conosciuta con il nome di sclerodermia, è rara, eterogenea, e non per tutti ha la stessa progressione. Ciò che è certo è che compromette la qualità di vita di chi deve farci i conti e delle persone loro vicine. E non ha ancora una cura definitiva. «È una malattia autoimmune, dovuta a un’interazione tra genetica, epigenetica e fattori ambientali», spiega Angelo Manfredi, professore associato di Reumatologia presso la Facoltà di Medicina dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Può comprendere affezioni prevalentemente di tipo dermatologico, senza coinvolgimento vascolare. Oppure può presentarsi con vasculopatie e fibrosi non solo della cute ma anche degli organi interni. Essendo sistemica, possono venire interessati tutti gli organi e i tessuti».
AILS, Associazione Italiana Lotta alla Sclerodermia, conosce bene le sfaccettature di questa malattia invalidante e ancora mortale.Grazie a un importante lascito ricevuto da Irene Tassara, ha quindi voluto destinare 99.000,00 euro a un progetto di ricerca che coinvolge tre Università italiane. «Non conoscevamo la signora Tassara ma lei, evidentemente, conosceva bene Ails ed il nostro impegno a favore dei malati. Quando abbiamo letto le sue volontà, ci siamo commossi. Abbiamo scoperto che aveva perso la sorella a causa della sclerodermia, per cui avrebbe desiderato l’avvio di una ricerca scientifica condotta da più università sulla malattia», afferma la Presidente Ails, Ines Benedetti.
Grazie al contributo del progetto “Irene Tassara” per la ricerca sulla sclerosi sistemica, l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, l’Università Politecnica delle Marche, e l’Università degli Studi di Verona hanno unito le forze. Mettendo a servizio dei malati le capacità complementari dei tre team, che affiancano alla cura clinica dei pazienti con sclerosi sistemica l’esperienza nello studio dei meccanismi di base delle autoimmunità, della flogosi vascolare e dello stress ossidativo. «L’obiettivo dello studio», spiega il professor Armando Gabrielli, Responsabile della Clinica Medica dell’Università Politecnica delle Marche, «è identificare i meccanismi che governano la fibrosi, l’accumulo di collageno e il danno vascolare alla base di questa malattia». Nelle regioni dei tre atenei, verranno selezionati 200 sclerodermici, a cui saranno prelevati campioni di fibroblasti e di sangue periferico da analizzare nei tre centri di ricerca, e tenuti sotto osservazione per un anno.
La sclerodermia attiva un circolo vizioso da cui, per il momento, è ancora difficile uscire. Come fare, è l’interrogativo a cui stanno cercando di rispondere i professori Angelo Manfredi e Maria Grazia Sabbadini dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Armando Gabrielli dell’Università Politecnica delle Marche, e Claudio Lunardi dell’Università degli Studi di Verona. «All’inizio della malattia si attiva l’endotelio, il tessuto che fodera l’interno dei piccoli vasi, immediatamente percepito dalle guardiane dell’integrità dei vasi, le piastrine. Che hanno la funzione di attivare un meccanismo emostatico, in modo che la rottura dei vasi si ripari velocemente», spiega il professor Manfredi. Ed è qui che sta il primo nodo da sciogliere sulla sclerodermia: «Essendoci un’attivazione generale dell’endotelio, anche le piastrine si attivano in maniera generale. Rilasciando moltissimi prodotti, chiamati microparticelle – piccoli pezzi di piastrine – che entrano in circolo e contribuiscono all’infiammazione di tutti i vasi. Interessando l’intero l’organismo. Questo meccanismo lo conosciamo da molto tempo, ma non sappiamo cosa facciano nella pratica queste microparticelle». «Fibrosi e vasculopatia si manifestano insieme», continua la professoressa Maria Grazia Sabbadini, responsabile del centro di Immunologia dell’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano: «Quello che stiamo cercando di comprendere è come gli eventi che caratterizzano la sclerodermia si accavallino tra loro, per sondare quanto uno stimoli l’altro e quali possano essere i meccanismi patologici e molecolari che stanno alla base». Perché i meccanismi infiammatori a livello microvascolare non sono ancora del tutto comprensibili. «L’infiammazione», continua Sabbadini, «dovrebbe essere un meccanismo di difesa, ma quando si innesca in modo incongruo come sistema vascolare della sclerodermia può portare a danni importanti fino all’obliterazione e al “drop capillare”».
«Un altro aspetto fondamentale», continua il professor Claudio Lunardi, Responsabile della UO Malattie Autoimmuni dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona, «è comprendere i meccanismi immunologici che portano al danno delle cellule endoteliali e all’infiammazione, e all’attivazione dei fibroblasti. Fattori ambientali come infezioni virali anche banali e sostanze chimiche possono agire da fattore scatenante in un terreno genetico predisposto. Questo studio ci aiuterà a comprendere gli effetti che stimoli ambientali differenti hanno sulle cellule nei diversi sottotipi di sclerodermia e sul maggior rilascio di microparticelle da parte di cellule endoteliali e piastrine». Non ultimo, l’obiettivo dei ricercatori è anche quello di trovare una cura più efficace dell’attuale. «Oggi, vengono utilizzati gli immunosoppressori», conclude il professor Gabrielli, «ma hanno scarsa capacità di stabilizzare la malattia e presentano qualche effetto collaterale. Con questa ricerca, che possiamo condurre grazie anche ai fondi del progetto “Irene Tassara”, ci auguriamo che una volta terminata la prima fase, si possano replicare le fibrosi in meccanismi animali e testare studi preclinici di nuove molecole farmacologiche».