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Lettera Aperta. La pandemia può spingere al suicidio

Suicidio (ph. scenarieconomici)

Pubblichiamo una “Lettera Aperta” di Matteo Notarangelo, Sociologo e counselor professionale, coordinatore dell’Associazione “Genoveffa De Troia” di Monte Sant’Angelo (FG).

«La persistenza delle misure restrittive, scaturite dall’inedita pandemia da Covid 19, potrebbe aumentare i fattori di rischio suicidario nella popolazione fragile.

Nelle comunità colpite da epidemie o, peggio, da pandemia, gli anziani e i tanti diversamente abili ,soli e isolati, sono a rischio suicidio.

Per contenere tutti i fattori scatenanti dell’atto infausto, c’è un solo modo: conoscere i soggetti vulnerabili.  Per questo, nelle comunità inclusive, che si prendono cura dei suoi membri, intervenire diventa necessario.

Gli agiti suicidari si possono prevedere e prevenire. Per farlo, necessita vigilare, conoscere, ascoltare, comprendere e sostenere le persone deboli, squarciando le loro solitudini, nel territorio, a domicilio.

Il suicidio non è mai improvvisato, è pianificato, è comunicato. Le intenzioni suicidarie vengono rese note con un linguaggio ermetico e con  risposte psicologiche e comportamentali. Il suicida narra, esplicitata quanto accadrà, con i vissuti personali, familiari, interpersonali, senonché con le condizioni abitative e l’organizzazione della vita quotidiana.

La catastrofe pandemica è una condizione che spinge verso la suicidialità, una insopportabile e ossessiva idea angosciante  che modifica la percezione della vita e favorisce l’ ideazione psicotica, invasa da spaventose ombre ansiogene.

In questo periodo, l’angoscia e la paura di non farcela mette a dura prova la salute mentale di tante donne e  tanti uomini, già provati dalla vita,  chiusi nelle loro abitazioni, inondate da tanta aggressività espressa e inespressa. Focalizzare l’attenzione di chi governa  sull’aspetto medico-sanitario può essere importante, ma non escludente.

La pandemia non ha un significato univoco, medico, sanitario, ma plurale: significati diversificati, secondo i  contesti economici, culturali, sociali, familiari e geografici.

Da diversi secoli, ma soprattutto oggi, nelle comunità occidentali prevale la medicalizzazione del virus, che trascura la vita e tutte le relative conseguenze sociali, economiche, psicologiche e assistenziali.  Sono queste realtà di vita quotidiana, che caratterizzano i governi locali e nazionali, riempiono di angoscia l’attuale momento pandemico e  modificano la salute psichica collettiva.

Medicalizzare la vita, in questo momento, amplifica l’ideazione fobica di ognuno, determinante psichico che, certo, non riduce solo  la vulnerabilità  e il rischio psicologico o psichiatrico, ma influenza la condotta suicidaria della parte più provata della Comunità, all’insaputa, forse,  delle loro istituzioni curative e governative.

Prendere coscienza dell’esclusiva invadenza dell’informazione medicalizzata invoglia a vedere nuovi orizzonti di vita e a costruire soluzioni possibili nelle strutture sociali, ponendo al centro dell’esistenza umano l’uomo come soggetto e non oggetto medicalizzato o economizzato. Spostando lo sguardo oltre la corsia ospedaliera è possibile vedere le Comunità aggredite da due emergenza silenziose: il virus e la paura. Due nemici invisibili, questi, che condizionano  la mente e il corpo. Due vere emergenze che inducono a fronteggiare i rischi di  due contagi:  quello dall’invisibile virus e quello dalla mostruosa angoscia invadente. Due battaglie che l’uomo e le sue istituzioni non possono combattere solo su un terreno sanitario accidentato e, spesso, senza armi, direi quasi a mani nude, bensì sul vasto terreno della complessità umana.

La pandemia non è la guerra dei medici, degli infermieri, dei barellisti, degli operatori socio-sanitari e degli inservienti, ma uno scontro  si sanitario, ma anche di civiltà, che  si combatte nella società, casa per casa, guardando in faccia tutte le precarietà dell’esistenza umana e sociale. Una strana guerra che vede coinvolti tutti, proprio tutti. Se il fine è difendere la vita di tutti, non si  pò non fornire i dispositivi di protezione personale a chi è in prima linea, supporti psicologici ai sofferenti psichici che vivono assediati in casa e la giusta assistenza domiciliare ai tanti giovani e anziani silenziosi, isolati e a rischio. La cura non è medicalizzare tutti i bisogni naturali dell’uomo, ma fornire i servizi indispensabili a domicilio, delegando agli ospedali le urgenze.

Come ogni storia sociale pandemica anche questa trasformerà la vita di tutti e, perché no, le strutture organizzative delle società. Per adesso, invece, c’è un solo imperativo categorico: contenere i tanti danni psichiatrici gravi e i molti decessi per virus e per suicidi non riconosciuti e non dichiarati.

Nelle comunità,  ci sono altre battaglie sociali da combattere, che non sono meno importanti di quelle che si combattono nelle corsie degli ospedali: battaglie che si affrontano fornendo supporti economici, psicologici e assistenziali alla parte fragile delle comunità.

E’ necessario, perciò, conoscere e controllare il Covid 19 per renderlo innocuo, ma è altrettanto necessario conoscere la condizione sociale, psicologica ed economica

della popolazione fragile delle Comunità, in modo da contrastare la paura, costante, di essere contagiati sia dal coronavirus sia dalla disperazione dall’isolamento socio-familiare.

E’ questo il tempo per fornire agli anziani e ai diversamente abili gli aiuti materiali, economici, psicologici e spirituali  necessari.

Perché? E’ risaputo, l’annuncio inaspettato di vivere “dentro” la pandemia, provocato da un virus “non conosciuto”, tra i cittadini del mondo ha generato incredulità, confusione e paura. In poco tempo, sono state stravolte  i normali comportamenti e imposto una, forse, necessaria “dittatura sanitaria”.    Quasi tutti hanno accettato la limitazione dei diritti fondamentali personali per proteggere se stessi, i familiari  e le comunità, vivendo forti emozioni di impotenza, rabbia e ansia. Ma può bastare?

In questi giorni, sono stati vissute le cinque fasi della risposta psicologica agli eventi catastrofici: la fase dell’impatto al disastro e quella di inventariare i danni caratterizzati dalla confusione e dalla paura; la fase dell’eroismo di persone disposte a mettersi in gioco per aiutare gli altri; la fase della “luna di miele” delle persone che  collaborano per il bene collettivo e la coesione sociale; la fase della disillusione delle persone deluse dalle distribuzione delle risorse e pervase da un sentimento di ingiustizia; la fase organizzativa delle persone e delle comunità  che iniziano a ricostruire i rapporti sociali, contando sulle proprie capacità.

Ma tutto ciò, ripeto,   può bastare a contenere le solitudini e l’isolamento delle tante fragilità umane, sedotte da una ideazione suicidaria?

Per arginare il male di vivere, servono comunità solidali e inclusive.

Adesso, in mancanza di altro, ci si affida alla resilienza al suicidio, risorsa naturale che protegge l’individuo dagli atti autolesivi.

Si, è vero, la resilienza può essere un ottimo deterrente al suicidio,  se c’è una buona coesione sociale e un attento governo aperto alle diversità, che rafforzi, con le giuste pianificazioni sociali e assistenziali, le capacità adattive agli eventi avversi.

Qualora venissero meno i supporti assistenziali, non c’è resilienza. È ora che bisogna costruire nelle comunità una idonea rete protettiva, capace di proteggere gli anziani e i disabili fisici e psichici dal rischio di isolamento. La resilienza, scrivevo, è il giusto argine al suicidio se i più fragili si sentono protetti dalla comunità e dalla sua comunicazione. In questi giorni di quarantena,  però,  c’è un ospite di pietra: l’informazione.

Sia chiaro, l’informazione è importante e necessaria e resta determinante, ma può anche incentivare la tendenza suicideria e  amplificare  le “fobie e la disperazione”, come può diffondere la tranquillità dell’animo.

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