Torino, duomo, omelia del Giorno di Natale a cura dell’arcivescovo di Torino e Susa
Embargo ore 10,45 «La festa del Natale è la festa di tutta la comunità nessuno escluso. Il santo e il peccatore, il povero o il ricco, il cristiano o chiunque altro di religione diversa, tutti sono chiamati a gioire per la nascita del Salvatore. Questo è il tempo in cui dobbiamo vivere uniti nello stesso amore e accogliere l’invito degli angeli sulla grotta di Betlemme: pace in terra a tutti gli uomini di buona volontà tempo. Parole che risuonano nel nostro cuore e che scuotono le nostre coscienze intorpidite dalla paura o dall’impotenza di fronte alle gravi situazioni di difficoltà crescente che assillano tante famiglie, malati di pandemia, lavoratori e giovani.
Nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium il Papa ha scritto una frase che può bene illuminare la riflessione che intendo fare. Scrive: «è interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una comunità (cf. Ap. 21, 2-4). Abbiamo bisogno di riconoscere la comunità a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che riscopra quel Dio che abita nelle nostre case, nelle nostre strade, nelle nostre piazze. Egli promuove la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia» (n. 71).
Il Papa si riferisce ad ogni paese o territorio dove viviamo ogni giorno insieme ad altre persone e famiglie. Non sono solo spazi fisici, ma luoghi in cui si manifesta la presenza di Dio. Purtroppo spesso sono “non luoghi” perché semplici agglomerati di abitazioni e strade dove regna l’estraneità tra le persone e la cultura dell’individualismo e dell’indifferenza. La città dell’uomo in cui esiste anche la città di Dio, al contrario, è quella in cui si promuove un tessuto di relazioni tra le persone che vanno accolte e coltivate. È la trama del vivere semplice della gente, che va sostenuto. È l’esperienza di quella fraternità che rende vero e carico di significato quello che facciamo. Ma è anche il campo in cui la Chiesa è mandata e che le è stato affidato da Dio perché venga ben curato e abbondantemente irrorato con la Parola che dà salvezza. Guardare con sguardo contemplativo la “comunità” e dunque le nostre realtà sociali in cui viviamo oggi ci induce a due atteggiamenti di fondo. Il primo è la concretezza del realismo. Il secondo l’operosità della speranza. Messi insieme, i due atteggiamenti generano e promuovono speranza, fraternità, insieme alla giustizia e alla verità. Separatamente o ci lanciamo in uno scoraggiamento senza ritorno o producono illusioni, in noi e in chi fa più fatica. I numeri della vulnerabilità sono cresciuti perché, più il tempo passa, più gli invisibili che avevano cercato di farcela con le loro forze residue si trovano senza risorse. I problemi si stanno ulteriormente intensificando perché vanno a toccare contemporaneamente molti e diversi nodi della vita delle persone in un processo di addizione continua.
I volti delle fragilità sono sempre più trasversali perché, ormai, nessuno può più dirsi sicuro di fronte all’evolversi spesso imprevisto della situazione. Penso ai tanti piccoli esercizi commerciali che hanno abbassato la saracinesca. Penso a tanti lavoratori che vivono il dramma della disoccupazione e a tanti cinquantenni che rischiano di essere espulsi dal mondo del lavoro e rischiano di non trovarne più uno o a tantissimi giovani che nemmeno più lo cercano tanto sono delusi dall’aver bussato invano a tante porte chiuse o vivono la precarietà permanente di lavori sempre saltuari. Penso alle ditte artigiane o imprese piccole e medie costrette a fermarsi in modo improvviso. Penso alle famiglie sottoposte a provvedimento di sfratto nonostante la morosità incolpevole. Penso a quello zoccolo duro di fratelli che vive in strada e continua a farlo per mancanza oggettiva di prospettive. Penso alle difficoltà di un numero sempre crescente di migranti e di richiedenti asilo, approdati tra noi ancora in bilico tra diritti e accoglienza. Penso alle famiglie che si frantumano su relazioni interpersonali difficili e che pagano, soprattutto nei figli, il prezzo alto dell’abbandono. Penso alle persone anziane e sole colpite da una acuzie sanitaria e in seria difficoltà per una vita solitaria. Penso ai disabili, troppo compatiti e poco ascoltati. Penso ai carcerati in fase di uscita, rimbalzati dal muro di gomma costruito in ragione degli errori commessi, scontati e – forse – non perdonati. Insomma le povertà non sono solo quelle di un certo numero di persone che ci chiede aiuto e sostegno ma sono ormai parte integrante della nostra comunità ecclesiale e civile.
Il realismo ci porta a fare ancora nostre le parole di Francesco: «Vi sono cittadini che ottengono i mezzi adeguati per lo sviluppo della vita personale e familiare, però sono moltissimi i “non cittadini”, i “cittadini a metà” ”» (EG, n. 74). No non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo cadere in questo inghippo. Non possiamo e non dobbiamo accettare la cultura dello scarto, perché abbiamo le potenzialità e la passione per generare solidarietà e accoglienza. In mezzo a tanta sofferenza emerge un esercito di persone che con spirito di gratuità e fraternità investono se stessi, il proprio tempo e risorse per sostenere e accompagnare chi soffre o è in difficoltà. Molte famiglie poi trovano in se stesse o attorno a sé, quella rete di solidarietà che permette di mettere insieme le risorse e gestire la crisi almeno per quanto riguarda il cibo e l’affitto di casa.
Gesù non solo nasce e vive in situazioni di povertà e sta dalla parte dei poveri ma condivide con loro la stessa sorte. Questo è un forte insegnamento per noi suoi discepoli. La presenza dei poveri in mezzo a noi non deve limitarsi a un assistenzialismo che li lascia sempre nel loro stato e li obbliga a chiedere sempre ciò di cui ha bisogno per vivere ma deve preoccuparsi di sostenerli nella ricerca di un lavoro e nella possibilità concreta di accompagnarli a trovare una soluzione alle loro necessità che li conduca a camminare poi con le proprie gambe come. I poveri non sono persone estranee ma sono fratelli e sorelle con la loro dignità che va riconosciuta e promossa.
Saluto infine con profonda amicizia il gruppo degli operai dell ‘ex Embraco che hanno rinnovato la partecipazione alla Messa di Natale che abbiamo celebrato tre anni fa davanti alla fabbrica dismessa. Allora sembrava che i problemi potessero essere affrontati con maggiore serietà e impegno di quanto non si è fatto fino a questi giorni in cui una loro delegazione si è recata a Roma per incontrare il ministro dello sviluppo economico. Purtroppo anche questa volta il ministro non si è presentato come anche altre istituzioni locali che avevano promesso di essere presenti. Mi addolora molto vedere come vengono trattati i lavoratori che non esprimono alcuna pretesa, ma chiedono solo di essere riconosciuti come le persone che più di tutti soffrono e portano il peso della realtà che rischia di deteriorarsi sempre di più. Sembra che essi diano fastidio alle istituzioni, le quali hanno il dovere di ascoltarli e aiutarli a superare l’attuale precaria situazione. Non c’è maggiore spregio di una persona quando questa privata della sua dignità ha la sensazione di non contare niente in una realtà che pure la riguarda in prima persona. Non possiamo accettare come comunità cristiana e civile in silenzio e rassegnazione questa situazione. Non possiamo accettare che la cultura del profitto incrini l’identità sociale di un territorio. Dobbiamo reagire per allontanare la paura e il disorientamento: il dramma che stanno vivendo questi nostri fratelli deve essere assunto con grande impegno e viva partecipazione dalle nostre comunità e da ogni persona di buona volontà. Malgrado tutto ciò non dobbiamo nemmeno arrenderci all’inevitabile, ma agire insieme e con convinzione per non perdere mai la speranza. Gesù ci aiuti ad affrontare queste situazioni e si rinnovi per tutti il messaggio che gli angeli hanno dato ai pastori la notte di Natale: non temete oggi è nato per voi un salvatore che è Cristo Signore.
Cesare Nosiglia» Embargo ore 10,45