Peste suina, Greenpeace: «approccio governo fallimentare, serve cambiare alla radice il sistema degli allevamenti intensivi »
La peste suina africana è tornata a mietere vittime tra i suini allevati in Italia: negli ultimi mesi sono stati riscontrati otto focolai, che hanno portato all’abbattimento di circa 20 mila capi. Numeri che rischiano di aumentare rapidamente.
«Il governo ha scelto di contenere il virus puntando essenzialmente sulla caccia al cinghiale, con l’obiettivo di dimezzarne la densità di popolazione, sebbene in altri Paesi europei questa strategia si fosse già rivelata fallimentare», commenta Simona Savini, della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. «Di fatto la relazione del gruppo di esperti della Commissione Europea, che a luglio ha visitato le zone infette, evidenzia un quadro allarmante di errori strategici e di mancanze nella gestione dell’epidemia, chiedendo all’Italia un sostanziale cambio di approccio, meno basato sulla caccia e più sul contenimento geografico dei cinghiali portatori del virus».
Secondo gli esperti, infatti, data la vastità dell’area interessata dall’epidemia, sarebbe fondamentale disegnare un perimetro – utilizzando anche barriere già esistenti, come le autostrade – entro cui confinare la popolazione di cinghiali infetta e adottare le misure previste per il monitoraggio e il contenimento del virus. Com’è noto, al contrario, la caccia aumenta la mobilità dei cinghiali: se viene praticata in maniera non coordinata in aree infette o limitrofe a quelle infette, non delimitate geograficamente, può avere un effetto controproducente e portare alla diffusione della malattia in altre zone, non solo tramite gli animali che si spostano ma anche tramite persone e mezzi, a volte legati alle stesse attività venatorie. È inoltre utile ricordare che anche il contagio negli allevamenti intensivi avviene attraverso le attività aziendali, come il trasporto di mangimi e animali, e non tramite contatto con i selvatici.
Dalla sua diffusione a oggi, il virus non si è mai fermato e, anzi, la zona interessata si è ulteriormente allargata: nel solo Nord Italia la zona soggetta a restrizione è passata in due anni e mezzo dai 500 km² iniziali ai circa 18 mila km² di oggi, come spiega Vittorio Guberti, veterinario dell’ISPRA e tra i massimi esperti europei sul tema. «Con un’area infetta così ampia, per altro comprendente zone ad alta concentrazione di allevamenti intensivi, il rischio di contagio dei domestici e di trasmissione da un allevamento all’altro rimane elevato», commenta Guberti che nei mesi scorsi, interpellato da Greenpeace, aveva già tracciato un quadro chiaro della situazione.
«Nonostante le indicazioni degli esperti andassero fin dall’inizio in un’altra direzione, il governo ha scelto di assecondare le pressioni del mondo venatorio e delle associazioni di categoria come Coldiretti e Confagricoltura, finendo così per non tutelare neanche gli stessi allevatori che oggi sono, di fatto, ancora più a rischio», sottolinea ancora Savini. «La peste suina, come altre zoonosi, dimostra ancora una volta che il sistema degli allevamenti intensivi è fragile e insostenibile, anche dal punto di vista economico: per questo deve essere cambiato alla radice. La proposta di legge “Oltre gli allevamenti intensivi” presentata da Greenpeace Italia insieme ad altre quattro associazioni indica una strada possibile per farlo, sostenendo le aziende in una transizione non più rimandabile. Ci auguriamo pertanto che venga calendarizzata al più presto», conclude Savini.