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Gaza: Save the Children, “Gli operatori sanitari sono senza gli strumenti essenziali per salvare vite umane”

In occasione della Giornata Mondiale dell’Aiuto Umanitario, Save the Children – l’Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini e le bambine a rischio e garantire loro un futuro – diffonde la testimonianza del dottor Jamal Imam*, impegnato a Gaza nel team sanitario di Save the Children.

Jamal Imam* è tornato a Gaza nel 2010 dopo averla lasciata da bambino e in seguito a un’esperienza in Sudan e negli Emirati Arabi. Negli ultimi 14 anni ha messo a disposizione le sue competenze mediche per le bambine e i bambini di Gaza. Il dottor Jamal* ha lavorato con Organizzazioni internazionali dedicandosi, in particolare, alla salute e alla nutrizione dei più piccoli.

“Immaginate di essere un chirurgo con un paziente a cui sono stati tagliati gli arti, che sanguina molto, e di dovergli salvare la vita con le mani legate dietro la schiena e gli occhi bendati: questa è la situazione in cui si trovano gli operatori sanitari a Gaza.

Sono il dottor Jamal Imam*, un medico il cui lavoro ha preso una piega inaspettata 14 anni fa, quando ho iniziato a operare nella Striscia di Gaza, un luogo in cui la vita delle bambine e dei bambini, ogni giorno, è in bilico, ora più che mai. Ho trascorso anni ad affrontare l’immane sfida di fornire assistenza di fronte a un blocco di 17 anni e a continue guerre. Ho iniziato a lavorare con Save the Children come specialista della nutrizione all’inizio della guerra, a ottobre dello scorso anno. Fornisco assistenza e supporto ai bambini che soffrono di malnutrizione in condizioni estremamente difficili. La mia storia non riguarda solo la medicina, ma anche la sopravvivenza, la resilienza e lo spirito inflessibile di un popolo sotto assedio.

Ogni giorno sono testimone di innumerevoli storie strazianti: bambini che cerco di salvare, madri che si rivolgono a me sperando che io possa fare miracoli per salvare i loro piccoli. Sono tutti privati dei bisogni più elementari per la sopravvivenza, e noi siamo senza gli strumenti essenziali per salvare vite umane – dalle forniture mediche ai materiali di cui abbiamo bisogno per fare il nostro lavoro. Le persone vengono da me e hanno bisogno di tutto, non solo delle cure mediche che dovrei fornire, ma anche di cibo e di sicurezza, che desiderano disperatamente. Ma eccoci qui, quasi impotenti di fronte a un bisogno così pressante. Offriamo quello che possiamo, ma la grave carenza di farmaci e di forniture ci lascia quasi impotenti.

Ho incontrato un bambino, Amjad*, che non aveva nemmeno un anno, soffriva di una grave malnutrizione acuta e lottava contro le infezioni della pelle. In tutta la Striscia di Gaza non c’era una sola farmacia che avesse la crema necessaria per curare la sua malattia. Non potete immaginare la quantità di tentativi e telefonate che sono state fatte per riuscire ad avere almeno il minimo indispensabile per curarlo. Dopo settimane, abbiamo iniziato a vedere qualche miglioramento. Amjad* è passato da una malnutrizione grave e critica a uno stato più moderato. Questo potrebbe non sembrare un successo significativo, ma considerando le risorse limitate di cui disponiamo e l’enorme sforzo necessario per assicurarle, è un grande successo il fatto che questo bambino sia riuscito a sopravvivere. 

Oltre a essere un operatore umanitario, sono un padre, un marito, un palestinese che prova lo stesso dolore e la stessa paura di chiunque altro qui. I bombardamenti continui, la perdita dei beni di prima necessità, lo sfollamento e la mancanza di sicurezza rendono quasi impossibile adempiere alle mie responsabilità di genitore. Sono anche un medico, a cui si affidano pazienti che soffrono nelle stesse brutali condizioni. Come posso fornire le cure che ci si aspetta da me, salvare vite e migliorare la salute delle persone quando sono costantemente afflitto dalla paura di ciò che potrebbe accadere domani o addirittura nelle prossime ore? 

L’elettricità è stata tagliata dall’inizio della guerra. Riceviamo un po’ di energia da qualche pannello solare qua e là, che è appena sufficiente per caricare una batteria o fornire un’illuminazione minima. Internet è altrettanto inaffidabile. A malapena riusciamo a ottenere una copertura sufficiente per inviare o ricevere un semplice messaggio per rassicurare le nostre famiglie o per rimanere informati su ciò che sta accadendo intorno a noi. I bombardamenti hanno distrutto le reti idriche, rendendo fuori servizio gli impianti di desalinizzazione e le centrali elettriche. La mia famiglia può passare giorni senza avere abbastanza acqua potabile.

Anche il cibo è diventato estremamente scarso. Passano mesi senza che si vedano verdure o frutta, per non parlare della carne o dei prodotti caseari. E poi c’è lo sfollamento. Immaginate di dover affrontare tutte queste sfide – niente cibo, niente acqua, niente energia – e poi di svegliarvi una mattina e trovare venti persone alla vostra porta, costrette a lasciare le loro case a causa dei bombardamenti o degli ordini di trasferimento, senza un posto dove andare. Oggi bisogna trovare un modo per sfamare un numero di persone cinque volte superiore a quello a cui si riusciva, a malapena, a provvedere ieri.

In mezzo a tutto questo sfinimento e alla costante lotta per assicurarsi lo stretto necessario per sopravvivere, c’è un carico emotivo che le parole non riescono a trasmettere appieno. Vivo ogni giorno afflitto dalla paura che oggi possa essere il giorno in cui perderò un familiare, un collega, un bambino che ho curato o addirittura tutta la mia famiglia in un singolo attacco aereo. La paura di tornare dal lavoro e scoprire che il mio quartiere è stato bombardato e di tornare e trovare i resti dei miei figli raccolti in un sacchetto di plastica. Questa è la realtà di Gaza. È ciò che ci perseguita tutti, giorno e notte, distruggendo il nostro sonno e divorando i nostri pensieri. 

Scegliere di lavorare come operatore umanitario in un luogo così difficile come Gaza non è stata una decisione casuale. È stato il risultato inevitabile di aver assistito in prima persona alle sofferenze e alle tragedie di questo luogo. Gli operatori umanitari qui non sono solo professionisti, sono persone che vivono le stesse difficoltà, provano lo stesso dolore e assistono agli stessi orrori di coloro che cercano di aiutare. Non c’è modo di separare il loro lavoro dalla loro vita personale, perché il loro lavoro è la loro vita.

A questo punto vi starete chiedendo da dove viene la forza che mi tiene in piedi oggi. La verità è che non lo so. Questa è la risposta sincera. Non so da dove venga questa forza. Ma so che non sono solo, e che questa forza non è solo mia. Sembra esserci qualcosa qui a Gaza che conferisce a tutti una straordinaria capacità di sopportare e perseverare. La resilienza della gente di Gaza, nonostante gli orrori inimmaginabili della guerra, mi ha ispirato profondamente. Si rifiutano di perdere la voglia di vivere, aggrappandosi a un amore per la vita che sfida ogni cosa. Vedere questo spirito incrollabile, soprattutto nei bambini, mi spinge a stare al loro fianco. Sogno la fine di questa guerra e che i responsabili dell’uccisione e dello sfollamento di bambini e famiglie siano chiamati a risponderne. Sogno che qualcuno, da qualche parte, si impegni a porre fine a questa guerra e a restituirci le nostre vite”.

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