Più di 50 “omicidi senza cadavere”: siamo in quella porzione della provincia di Vibo Valentia, nota alle
cronache come il «triangolo della lupara bianca», che comprende anche altri comuni come Francavilla
Angitola e Curinga, incastonati tra viali impervi e distese boschive teatro di una criminalità brutale, di noti
clan di ’ndrangheta e sanguinose faide. “Gli scomparsi di mafia” il titolo dell’inchiesta nell’ ultimo
numero de lavialibera, periodico di Libera e Gruppo Abele, che accende i riflettori sulla provincia di
Vibo Valentia che registra il più alto numero di omicidi in cui non viene ritrovato il corpo degli uccisi,
seppelliti vivi o gettati in pasto ai maiali. Una casistica tutta calabrese, divenuta nota dopo il caso di Maria
Chindamo, imprenditrice della quale si sono perse le tracce il 6 maggio 2016 davanti al cancello dei suoi
terreni agricoli a Limbadi. Vicende segnate dalle lacrime di figli, sorelle, fratelli, madri che si rivolgono
agli aguzzini dei propri cari per poter avere indietro le loro spoglie mortali. Come spiega a lavialibera
Marisa Manzini, sostituto procuratore generale di Catanzaro, «l’assenza di un corpo impedisce di fare gli
accertamenti e di capire quali siano state le dinamiche del delitto, l’arma, le modalità della morte della
persona. Così è molto più semplice per chi commette il reato rimanere impunito». Dietro a questo modus
operandi si cela «una crudeltà non da poco». I pentiti raccontano di persone interrate prima ancora di esalare
l’ultimo respiro, di corpi ridotti a brandelli e dati in pasto ai maiali. «Si bruciano e dopo si rompono e si
seminano» e i resti diventano «letame per le piante di noce», racconta il collaboratore Carlo Vavalà
ricostruendo la dinamica dietro alla scomparsa, il 23 gennaio 1990, del giovane meccanico di Porto Salvo
Francesco Covato. «Aggiungere all’uccisione anche l’occultamento del cadavere rende la cosa ancor più
crudele e confonde chi la subisce – continua Manzini –, nelle faide interne lascia il dubbio su chi possa
essere stato l’autore; esprime la volontà di fare doppiamente male, anche ai familiari, che non possono
piangere il defunto». Sono tanti i casi raccontati ne lavialibera: Francesco Aloi, 22enne scomparso a
Filadelfia il 16 settembre 1994; Francesco Vangeli, 26enne artigiano scomparso il 9 ottobre 2018 a San
Giovanni di Mileto, Pino Russo Luzza, 21enne operaio edile scomparso ad Acquaro il 15 gennaio 1994. La
pratica è usata dai clan anche per aver ragione di conflitti interni, per eliminare testimoni scomodi –
spesso anche involontari – delle attività criminali, mettere in atto vendette, come sarebbe stato nel caso di
Roberto Soriano, scomparso nel 1996 per volere del clan di San Gregorio d’Ippona. Dietro molti casi di
desaparecidos calabresi, venuti alla luce tra l’Angitolano e le Preserre vibonesi, ci sono relazioni
pericolose in un contesto intriso di cultura mafiosa e animato da un concetto perverso di onore, dove la
donna è spesso concepita come merce da investire in unioni forzate e matrimoni combinati. «Leindagini sulla
sparizione di diversi giovani uomini – spiega Manzini – hanno portato a supporre che siano stati uccisi e fatti
sparire perché avevano intessuto relazioni pericolose con donne di ’ndrangheta» “Le modalità crudeli e
violenti nell’agire nei casi di “lupara bianca” evidenziano – dichiara Giuseppe Borello, coordinatore di
Libera Calabria -il carattere contraddittorio dell’agire ‘ndranghetista. Da un lato capace di invadere i
mercati finanziari anche grazie all’utilizzo delle più moderne tecnologie, dall’altro asservita a una
sottocultura patriarcale e antiquata che si manifesta soprattutto nei casi di lupara bianca. Una modalità atroce
per far fuori una persona che secondo quei codici e leggi si sarebbe macchiata di una colpa talmente grave da
rendere necessario cancellarne ogni traccia. Oltre al corpo, se possibile, anche la memoria, fonte di fastidio e
imbarazzo per i cosiddetti uomini d’onore.”
L’inchiesta de lavialibera sarà presentata durante Contromafiecorruzione di Libera che si svolgerà da
venerdì 18 a domenica 20 ottobre presso la Scuola di Polizia di Vibo Valentia. Tre giorni di riflessione,
incontri, lavori di gruppo per una nuova proposta di rinnovamento dei percorsi, dei linguaggi e degli
strumenti legislativi nella lotta alle mafie e alla corruzione e per ribadire l’importanza della rete sociale
contro la ‘ndrangheta e per porre al centro alcune questioni. Per iscriversi e partecipare www.libera.it