Tahar Ben Jelloun: «Non ho più speranza nella pace in Medio Oriente. La mia rabbia è impotente, non sa che direzione prendere»
Intervista allo scrittore, poeta e giornalista: «Sono pessimista sul futuro. La cultura aiuta a capire, ma non fa miracoli in un mondo in corsa verso le armi. È il tempo della guerra, della vendetta, non c’è spazio per il dialogo».
«Firenze mi ricorda Fès, in Marocco, dove sono nato. Una bellezza che si svela prepotente a ogni angolo. C’è una straordinaria presenza del passato, anche qui, ed è tangibile nella sua energia: una terra che fa sognare e invita a una connessione in qualche modo spirituale. Un museo col soffitto di nuvole, dove il tempo si è fermato, ma sa raccontare ancora bene storie antiche memorabili». Così Tahar Ben Jelloun, scrittore premio Goncourt, poeta e pittore che risiede in Francia dal 1971, parla della città che lo accoglie come presidente di giuria a France Odeon — questo sabato 2 novembre ha incontrato il pubblico al Teatro di Fiesole coordinato dal critico cinematografico Marco Luceri e da Francesco Ranieri Martinotti, direttore del festival .
La sua carriera di scrittore inizia negli anni 60, prendendo una forma più definita col trasferimento a Parigi, dove studia psicologia e diventa critico letterario per Le Monde. Nel 1973 pubblica il suo primo romanzo, Harrouda, che precede una ventina di opere, tra le quali Creatura di sabbia e Notte fatale, che gli farà vincere il premio Goncourt nel 1987. E poi L’Urlo, Israele e Palestina. La necessità del dialogo nel tempo della guerra fino all’ultimo Gli amanti di Casablanca.
Iniziamo dal Jelloun pittore: nelle sue opere disegna porte che aprono metaforicamente lo sguardo a cosa?
«Alla luce, alla spiritualità, in un mondo dove l’oscurità è una minaccia costante. Ogni volta che mi trovo davanti a un muro culturale cerco il modo di attraversarlo, una disponibilità all’incontro, un pathos che considera la differenza, che non ha paura di manifestare generosamente le sue radici. In alcune opere ho incollato parole ritagliate dai giornali, così mi ricordo che sono anche uno scrittore, che faccio poesia e pittura».
Proprio dalla poesia ha iniziato il suo percorso.
«Non smetto di pensare che la poesia salverà il mondo. È una richiesta di libertà, la parola è indispensabile al benessere delle persone, è una carezza. In Palestina ci sono poeti che non piangono, ma lavorano, esprimendo coi versi quello che accade. Ricordo spesso lo scrittore palestinese Mahmoud Darwish: cacciato dalla sua casa quando ancora era un bambino, è ricorso alla forza delle parole senza mai riversare odio sugli ebrei. Quando lo incontravo il suo sguardo fissava sempre un punto lontano, come chi non ha più un paese e non sa dove guardare. La sua è stata una grande lezione umana, di civiltà».
«Ogni faccia è simbolo della vita e ogni vita merita rispetto» scrive ne Il razzismo spiegato a mia figlia.
«Ogni faccia è un miracolo, in quanto unica. Le differenze ci salvano, sono un’opportunità d’arricchimento. Il razzismo è un’abitudine umana, costantemente presente, si ha paura di ciò che non si conosce. Ma ci sono momenti in cui diventa ideologico, una strategia per eliminare gli altri. Per questo motivo bisogna essere vigili. Vado spesso nelle scuole ad allertare i più piccoli verso questa tendenza».
La battaglia contro il razzismo inizia con un lavoro sul linguaggio?
«La differenza culturale, nelle scuole, è una gran bella cosa, una buona occasione per l’umanità: il miscuglio è un arricchimento reciproco. È complesso parlare ai ragazzi di razzismo e terrorismo, la chiave è trattare il tema con sincerità: il mondo è violento, non c’è da addolcire la realtà».
Lo scorso anno ha scritto un pamphlet sui fatti in Medio Oriente e le possibili soluzioni per mettere fine al conflitto, a partire dal dialogo urgente tra i due popoli. Cos’è cambiato in questo tempo?
«Niente, anzi, le cose sono peggiorate. Sono disilluso, non ho più la speranza che si riesca a raggiungere una situazione di pace. Di certo la questione della legittimità di uno stato palestinese è, grazie alle tante manifestazioni nel mondo, al centro dell’attenzione internazionale come mai successo in passato. Io che sono arabo e musulmano di nascita, non trovo parole per esprimere l’orrore per quello che i militanti di Hamas hanno fatto agli ebrei, una barbarie senza giustificazioni. Allo stesso tempo nessuno ha il diritto di negare vita e dignità al popolo palestinese. La mia rabbia è impotente, non sa che direzione prendere».
La cultura che ruolo deve avere?
«Che si parli di letteratura, cinema o arte, non c’è intellettuale che tenga, in questa situazione d’odio. Sono pessimista sul futuro. La cultura aiuta a capire, ma non fa miracoli in un mondo in corsa verso le armi. È il tempo della guerra, della vendetta, non c’è spazio per il dialogo».
Nel suo ultimo libro, Gli amanti di Casablanca, il protagonista per certi versi le somiglia.
«Come lui non accetto le ingiustizie. È un pediatra sensibile alla causa palestinese che va a curare i bambini di Gaza. Mi ci ritrovo, molto. E non è la prima volta che tra le righe dei miei libri mi dichiaro sensibile alla causa. Ammiro la resistenza del popolo palestinese. Da giovane manifestavo contro la guerra in Vietnam accanto a grandi intellettuali del tempo, c’erano Sartre, de Beauvoir, Foucault. Non abbiamo fermato la guerra, ma il nostro sostegno è stato importante.»
Dalla voglia di libertà che si paga a caro prezzo in un mondo patriarcale, alla lotta contro i pregiudizi: le sue storie parlano del mondo magrebino per poi allargarsi a una riflessione sui temi universali.
«Vorrei riuscire a parlare a tutti, superando i limiti delle differenze culturali e geografiche. Dalla storia di una famiglia, di un piccolo mondo dove in molti possono ritrovarsi, si può arrivare molto lontano, dandole respiro».
Fonte: Corriere Fiorentino. Ginevra Barbetti.