Sugli scafi volanti, riflessioni di Gaetano Mura
Che strano effetto osservare le differenze di velocità tra gli Imoca 60 impegnati nella Transat Jacques Vabre. Seduto davanti al Pc con un po’ di sana invidia rifletto sui sentimenti opposti che scaturiscono: esaltazione e nostalgia insieme.
Le nuove macchine volanti vanno due nodi più veloci delle sorelle con i foil di prima generazione che a loro volta vanno 2 nodi più veloci delle “lontane “parenti ” a derive tradizionali. Quindi 4 nodi di differenza tra le prime e le ultime. Una simile differenza nella stessa categoria credo che non si veda in nessuno sport. A parte tristi e troppi casi in cui a “volare” è l’uomo stesso, alimentato da iniezioni dopanti. Situazioni non considerabili, siamo nel campo dell’ anti sport.
Esaltante vedere volare, sfiorando la superficie dell’acqua, questi bellissimi aliscafi o idroplani, come si preferisce chiamarli, a propulsione eolica. Qual è il marinaio che non aspira a navigarci sopra, almeno una volta, su questi oggetti che fanno sognare solo a vederli all’ormeggio e con le ali a riposo.
Alcuni giorni fa, a Cagliari, sono stato ospite dell’amico Max Sirena presso il quartier generale di Luna Rossa. Che effetto, quando si apre la porta dell’hangar, e ti ritrovi davanti l’ imponenza sovrastante di un “gerride” in carbonio da 75 piedi.
Anche qui tra il fascino e lo stupore si insinua Il sentimento di nostalgia. Non per la visione della barca di Coppa America che per essere “distante” non aveva bisogno di mettere le ali, ma per come influenzerà l’ approfondirsi della distanza tra “l’ impossibile sognabile ” e “l’impossibile punto e basta”.
Se è vero che, anche per i top Skipper, trovare gli sponsor nelle categorie oceaniche è sempre più difficile, trovarlo per la categoria Imoca 60 è un vero colpo di fortuna. Anche per “quelli veri” e lo conferma il fatto che sono svariati i nomi altisonanti attualmente appiedati. Ma per gli avventurieri e i semiprofessionisti ahimè, le cose si complicano seriamente e i loro sogni prendono il volo e si allontanano alla stessa velocità delle nuove macchine volanti.
Queste ultime categorie di navigatori hanno dato un grande contributo alla storia della navigazione oceanica e all’esportazione del fascino di questa disciplina al di fuori dei confini settoriali. Per questo meritano, perlomeno, delle riflessioni.
Sono fermamente convinto che si debba trovare un nome specifico per questi nuovi scafi ibridi. Non soltanto per questioni di nomenclatura ma per trovare loro una giusta collocazione a livello di categoria e di classifica. La discriminante può essere, per esempio, la percentuale di superficie bagnata in grado di staccarsi dall’acqua. Perché se estremizziamo ciò che già questi oggetti sono in grado di fare li potremmo immaginare ad un soffio dal volo reale e quindi si chiamerebbero aerei. Non considerarle più barche andrebbe a favore della spettacolarità di una categoria nascente, con meno limiti, più simile alla Formula 1 dai grandi budget e allo stesso tempo ridurrebbe il frustrante divario economico tra i team.
Adeguare la nostra vita alla rapidità di avanzamento della tecnologia con tutti i pro e contro è un dazio che paghiamo ad essa ogni giorno, ed anche il nostro idioma di conseguenza si deve necessariamente adeguare.
Dare un nuovo nome a questi ” aliscafi ” e distinguerli per categoria nella classifica delle regate accrescerebbe la credibilità sportiva di questa disciplina già abbastanza elitaria e riaprirebbe le porte a più ampie fasce e tipologie di navigatori.