La Resistenza Partigiana Savonese: chiari e scuri
Il 25 aprile ricorre l’anniversario della liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista.
Durante l’occupazione tedesca e dopo la liberazione, sia partigiani che nazifascisti, hanno perpetrato violenze contro civili, soldati e bambini.
Come in tutta Italia, anche nel savonese sono successi gli accadimenti sopra citati; ne riporterò tre riferiti ad entrambe le parti, perché nessuno è “santo” durante una guerra.
San Benedetto – Gorzegno (Val Bormida)
Nel dicembre del ’44, un commando partigiano della Brigata Garibaldi, assalì un convoglio di soldati tedeschi, uccidendo il comandante e due attendenti. Alcuni contadini che furono testimoni dell’agguato, per evitare che i tedeschi trovassero il corpo del comandante e dei due attendenti uccisi e si vendicassero, li nascosero.
I nazisti però tornarono e, dopo un rastrellamento, presero una cinquantina di persone con l’ordine preciso di uccidere trenta civili italiani come ritorsione. Li portarono in una scuola di Murazzano e li torturarono.
Uno di loro propose allora, in cambio della salvezza degli altri prigionieri, di trovare i corpi dei tre tedeschi. Essi accettarono e il contadino, trovato i corpi, li caricò su un carro e li riporto a loro. I nazisti lasciarono si liberi tutti gli uomini, ma diedero fuoco alle case del paese.
Clelia Corradini (Vado Ligure)
Clelia Corradini rimase vedova a 34 anni; il marito morì per una malattiacontratta nella fabbrica dove lavorava, lasciandola sola con tre bambini in giovane età. Clelia si rimboccò le maniche e trovò lavoro.
Fu dura perché lei era di ideali antifascisti, ma si prodigò sempre in prima persona per onorare questa sua fede; prese parte alle manifestazioni per la salvaguardia dei diritti del lavoratore nel ’43 e nel ’44, riuscì a fuggire ad una retata dopo un ennesimo sciopero.
La giovane donna faceva parte anche del Gruppo di Difesa delle Donne (novembre 1943), dedicandosi alla propaganda, alla raccolta di medicinali e indumenti per le famiglie in difficoltà economiche e alle prime formazioni partigiane.
Con il nome di “Ivanca” , assieme ad altri compagni, cercò di convertire alle idee antifasciste, un gruppo di marò della S. Marco giunti nella riviera ligure. Venne però arrestata e torturata, ma mai rivelò i nomi di altri suoi compagni. Fu condannata alla fucilazione dopo un processo sommario.
La mattina del 24 agosto affrontò il plotone di esecuzione, presso il bastione della batteria costiera S. Giovanni di Vado L., con molto coraggio.
I militi del plotone di esecuzione, quando la videro, furono mossi da pietà e rifiutarono di sparare contro questa donna serena e impavida. Per tre volte il comandante del plotone ordinò di sparare, ma ottenne sempre rifiuto. Allora, adirato, impugnò il mitra e perpetrò l’omicidio sparando una raffica contro Clelia.
Eccidio di Cadibona (Savona)
Il 25 Aprile del 1945, le truppe alleate erano vicine a Savona. Vista ormai la disfatta, le truppe nazifasciste e gruppi di repubblichini, fuggirono in tutta fretta verso il nord dell’Italia. Durante la fuga, dopo ripetuti assalti dal cielo e da terra, il gruppo di una cinquantina di collaboratori del regime, si arrese nei pressi di Valenza.
Dopo qualche giorno furono portati nel carcere di Alessandria e ivi tenuti prigionieri. Avendo avuto notizia di questi arresti, la questura di Savona ne ordinò la traduzione da Alessandria per processarli.
L’11 maggio i prigionieri furono caricati su un bus per essere tradotti a Savona: erano 38 uomini e 13 donne. Arrivati ad Altare, fecero scendere le donne, che furono portate nella scuola elementare , dove furono pestate, stuprate e vessate; furono anche costrette a sfilare fra due file di partigiani, ricevendo sputi, botte e offese verbali. Arrivate a Savona le donne furono liberate.
I maschi furono fatti scendere dopo la galleria del Cadibona e, portati in un avvallamento della statale , furono spogliati e giustiziati.
I corpi giacquero per un giorno nel canalone, dopodichè furono portati nel cimitero di Cadibona e seppelliti in una fossa comune. Nel ’49, il cappuccino Padre Giacomo li fece riesumare e seppellire nel cimitero delle croci bianche di Altare. Nel’46, gli autori dell”eccidio furono processati, ma per la legge Togliatti riguardo alle azioni in guerra, furono giudicati non perseguibili per il reato a loro contestato.