Società

Space9_MIdI, il Museo Immateriale dell’Immagine

Ha inaugurato lo scorso venerdì 18 dicembre Space9_MIdI, il Museo Immateriale dell’Immagine. All’indirizzo www.space9.it, fatta eccezione per il luogo fisico, si troverà di fatto il primo museo dedicato all’arte della fotografia in Sardegna. Uno spazio virtuale pensato con l’intento di creare sul web un vero e proprio museo che si presenterà ai navigatori della rete come un “contenitore-contenente” nelle sue stanze una Collezione Permanente e spazi dedicati ad esposizioni di mostre temporanee.

Il progetto nasce da un’idea di Sonia Borsato, una delle voci più autorevoli della fotografia, docente all’Accademia di Belle Arti a Sassari, direttrice di Su Palatu, il polo culturale della fotografia in Sardegna fondato da Salvatore Ligios a Villanova Monteleone e direttore artistico del festival Alghero Street Photography Awards e Giovanni Follesa, giornalista e scrittore, attualmente docente all’Accademia di Belle Arti a Sassari, ha curato nel 2011, con Cristiana Collu e Vittori Sgarbi, la Biennale di arte contemporanea – Regione Sardegna e oggi si occupa, tra l’altro, di letteratura per radio e giornali.

Insieme, già nel 2017, lontani dall’inimmaginabile pandemia che si è abbattuta sul mondo, pensavano di catalogare i giovani fotografi della Sardegna e portarli all’interno di una dimensione digitale in grado di poterli far conoscere e presentare ad un pubblico più vasto varcando digitalmente i confini dell’Isola. Un’idea di partenza che nel tempo si è trasformata in un progetto più ambizioso e articolato dando vita al MIdI, il Museo Immateriale dell’immagine, ospitato all’interno del sito internet www.space9.it.  

«Il punto di partenza della nostra riflessione – spiegano Borsato e Follesa – è la condizione insulare, preferenziale stato dell’immaginario con immediati effetti pratici. La Sardegna, che abitiamo come nascita e scelta, ci pone al centro di grandi relazioni, discorso spaziale che si declina in tutte le implicazioni sociali, antropologiche, economiche, culturali. Consapevoli di essere tappa irrinunciabile in un mare di geografie, ne accogliamo il privilegio e le responsabilità provando a leggere Il Mediterraneo che, per sua natura, unisce e divide, concede e toglie, racconta e silenzia. Questo Mediterraneo – tratto di civiltà comuni nelle svariate geografie che su questo mare si affacciano – vorremmo accogliere e rivelare».

Un luogo immateriale che non è, né nelle intenzioni né nella pratica, il sito di un museo e neanche un blog, men che meno un archivio o una galleria fotografia, ma un vero e proprio museo che seppur ambientato nel mondo digitale vive con le stesse identiche modalità di uno spazio fisico condividendo le mission di un museo che lo vuole impegnato nella conservazione, salvaguardia e promozione delle opere esposte, oltre a possedere un apparato pedagogico-formativo risultato sia delle mostre esposte che dalle riflessioni che possono scaturire all’interno delle proposte. E come tutti i musei che si rispettino non mancherà a breve ovviamente la sezione del bookshop con i classici gadget museali.

Space9 è una fatica condivisa con un gruppo di lavoro partecipato all’insegna della condivisione. Infatti, per quanto il museo sia immateriale, la sua costruzione prevede una struttura di testa e azione che si avvale anche del contributo della Fondazione di Sardegna che ha creduto nel progetto fin dalla sua iniziale ideazione ribadendo la sua vocazione di sostenitrice dell’arte. Il museo Space9 apre per puro caso proprio nel mezzo della pandemia da COVID19 ma questa coincidenza ne amplifica la valenza di significato intraprendendo un cammino innovativo che diventa messaggio portatore di fiducia ed entusiasmo.

La Collezione Permanente conta ben un migliaio di opere di oltre 50 autori prevalentemente sardi che tutti insieme formulano una costruzione identitaria in grado di leggere la contemporaneità attraverso l’occhio della fotografia in Sardegna che su Space9 si rimette ad una coscienza universale aprendosi al dialogo col mondo con un’attenzione particolare verso tutti i Paesi del Mediterraneo.

Confini/Orizzonti – Meditazioni Mediterranee

18.12.2020 | 12.04.2021

Space9_MIdI, il Museo Immateriale dell’Immagine 

Confini/Orizzonti è la mostra temporanea inaugurale di Space9 – Museo Immateriale dell’Immagine.

Nelle sale espositive della collettiva sono presenti parte delle opere inserite nella collezione permanente di Space9 – MidI, selezionate dai curatori Sonia Borsato e Giovanni Follesa; gli scatti di alcuni fotografi siciliani, scelta critica di Ezio Ferreri; un lavoro fotografico realizzato in Catalogna da Myriam Meloni e Arnau Bach, con il patrocinio dell’Ajuntament de Barcelona. Ciascuno dei curatori ha dato un’interpretazione personale, intima, del significato Confini/Orizzonti. La mostra nasce dalla volontà di strutturare un dialogo tra Sardegna-Sicilia-Barcellona, nella consapevolezza di essere tappa irrinunciabile in un mare di geografie e nella responsabilità di leggere Il Mediterraneo che, per sua natura, unisce e divide, concede e toglie, racconta e silenzia.

Dai testi introduttivi alla mostra: 

Silvia Sanna mare 2020 (2).jpg

… il guardo include

Esiste una annotazione in cui Giacomo Leopardi rivela che la prima versione dell’Infinito prevedeva l’espressione “Celeste confine”, solo in un secondo momento sostituita da “Ultimo orizzonte” (come sappiamo un po’ tutti da vaghe reminiscenze liceali). Il giovane Leopardi opta dunque per la profondità della parola «orizzonte», capace di racchiudere contemporaneamente sia un limite che un’apertura spalancata verso infiniti spazi. La cosa interessante è come i due termini – confine e orizzonte – si trovino a colloquiare non solo nel titolo della collettiva che presentiamo ma anche in questa occasione poetica, contendendosi granelli semantici. 

Confine ha radici latine: cum finis, con una fine, un termine; estrema linea che segna la fine di un territorio o paese. Pur se vincolato a una dimensione apparentemente pragmatica, è un termine che richiede una certa “prospettiva” per poter essere compreso in tutte le sue sfumature. Il tracciare una linea di demarcazione, infatti, presuppone un “al di qua” e un “al di là”. Quello che dunque potrebbe inizialmente sembrare un limite diventa invece una prospettiva, un’interfaccia, una finestra di comunicazione. Del resto, sempre tornando al latino, il sostantivo confinis indicava il vicino, il confinante appunto, ma anche colui che ci era affine: una separazione ma anche un’intimo legame. 

Orizzonte invece deriva dal greco orizon, denominativo di oros, confine. Pur mantenendo il senso della limitazione, trattandosi di una linea immaginaria, estremità ultima verso cui si può spingere lo sguardo, l’orizzonte sviluppa un senso di finitezza che risiede esclusivamente nella nostra percezione e non in una condizione tangibilmente fisica. Entrambi, dunque compartecipano di uno strano destino: avere un possibile utilizzo quotidiano e concreto, a tratti con sfumature negative e claustrofobiche, ma in realtà racchiudere una natura filosoficamente spalancata, volta alla speranza, al confronto; destinati a collegare l’indeterminato e il determinato, il finito e l’infinito; spesso applicati al campo della conoscenza, designano l’anelito a varcare i margini del nostro stesso sapere.

Come immaginarsi nel mondo senza che vi sia un “oltre”, un prima e un dopo, un qui e un altrove?

Il senso di una collettiva come questa nasce da questi sottesi interrogativi, dalla frequentazione di interstizi sociali ed emotivi, dal coraggio di posizionare occhio e cuore in “luoghi” poco esplorati dell’esistenza. Proprio nei giorni di questa “inimmaginabile stagione umana” che stiamo vivendo, mi soffermo spesso sulle parole di Alessandro Mendini “il futuro potrà essere positivo solo se compariranno utopie culturali per una nuova umanità”. Forse è un po’ questo il sogno utopistico, di una collettiva così vasta e eterogenea che triangola tre punti nel Mediterraneo, tre inflessioni di luce – la Sardegna, la Spagna e la Sicilia – assistere al futuro nel suo divenire; contemplare l’avvenire nel suo interrogarsi e trasformarsi; suscitare negli osservatori una sorta di nostalgia per quell’esperienza profondamente umana che è la contemplazione dell’orizzonte, il superamento di un limite: che si tratti della tensione tra centro e periferia, tra infanzia e età adulta, che sia il giorno che vince la notte o infine il mare che divora la riva… sono solo metafore tangibili di esperienze filosoficamente potenti, capace di farci comprendere più a fondo e di indurci a ridimensionare la reale portata degli eventi della vita.

Esperienza, forse, che tendiamo a sottovalutare, a vivere con eccessiva leggerezza, impedendo loro di rivelarci a noi stessi.

Sonia Borsato

Non accontentarti dell’orizzonte. Cerca l’infinito. (Jim Morrison)

Orizzonte: [dal lat. horīzon -ontis, gr. ὁρίζων -οντος, propr. part. pres. di ὁρίζω «limitare» (sottint. κύκλος «circolo»)]. La linea apparente, a forma di cerchio o di arco di cerchio, lungo la quale, in un luogo aperto e pianeggiante, il cielo sembra toccare la terra o il mare, tanto più ampia quanto maggiore è l’altitudine del luogo dal quale si osserva.

Confine: [dal lat. confine, neutro dell’agg. confinis «confinante», comp. di con- e del tema di finire «delimitare»]. Limite di un territorio, di un terreno. Limite di una regione geografica o di uno stato; zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti. Limite, termine in genere.

Nelle pagine delle sue Confessioni sant’Agostino c’è un exemplum, disarmante nella sua semplicità e ricco di significato. In riva al mare, il Santo meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. Si accorse allora di un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: «Che fai?».

La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant’Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento.

I due punti di vista inquadrano il punto: il legame tra orizzonti e confini. Non so se esista un termine che definisca tale contiguità, che aiuti a distinguere gli uni (orizzonti) dagli altri (confini), ma se c’è un insegnamento in sant’Agostino forse è proprio questo: orizzonti e confini non esistono, se non nel nostro stato d’animo, nella visione del mondo e della vita. Nella volontà di chi agisce.

È questione di opportunità: optare per una strettoia irta di categorie mentali o aprirsi al Mistero dell’infinito.

Il bambino impertinente, in conclusione, risponde così a Agostino: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del Mistero di Dio».

Per spiegarci che il paradigma della complessità è la fascinazione del quotidiano, che le scelte personali disegnano le prospettive delle geo-grafie personali ora capaci di perdersi negli orizzonti ora, invece, costrette negli steccati dei confini. È il processo di continua metamorfosi interiore. Ondivaga percezione di se stessi nell’aderire a quello che pare essere il senso del mondo. Ora, però, se esistono delle geo-grafie esistono anche i loro atlanti, capaci di contenerle. In una suggestione fisica (orizzonti) e mentale (confini): il tutto è connesso a tutto. E non c’è nulla di sovversivo nel ritrovarsi di qua o di là, se non la nostra volontà di assumersi la responsabilità del destino. Gli scatti in mostra sono un invito al viaggio oltre i confini personali per raggiungere orizzonti individuali e collettivi. Non è importante partire, però. Non c’è niente di fisico, sia chiaro. È più impegnativo (o proficuo) scegliere un punto di vista: guardare come Agostino o il fanciullo? E in un attimo il confine si fa orizzonte. O viceversa.

Giovanni Follesa

Corpi Terresti

C’è una reminiscenza liceale che torna spesso alla mente quando ci si confronta con un certo tipo di ricerca fotografica.

Il termine “orizzonte degli eventi”, definizione molto poetica usata per definire l’estensione immaginaria che circonda ogni buco nero.

I buchi neri, senza che si scivoli in una lezione di geografia astronomica, sono dei corpi celesti con una superficie esterna composta di materia attrattiva che fagocita tutto quello che gli si avvicina in un continuo divenire, modificarsi, espandersi. In una giostra di rimandi forse prevedibili, “corpo celeste” evoca Anna Maria Ortese: “su un corpo celeste, su un oggetto azzurro collocato nello spazio vivevamo anche noi: corpo celeste, o oggetto del sovramondo, era anche la Terra. Eravamo quel sovramondo. Quando ho compreso questo, sono stata presa da un senso di meraviglia, di emozione indicibile. L’emozione diveniva la sorpresa e la gioia di una più grande scoperta, quella di un destino impareggiabile. Mi trovavo anche io sulla Terra, nello spazio, e il mio destino non era molto dissimile da quello degli oggetti e corpi celesti tanto seguiti e ammirati. Una cosa era certa, era nozione ormai incancellabile: tutto il mondo era quel sovramondo. Anche la Terra e il paese dove abitavo; e la collocazione, o vera patria di tutti, era quel sovramondo!”

Le parole di Ortese si posano delicate come “strutture di luce” sul racconto fotografico di Myriam Meloni e Arnau Bach – “LINDE”, confini, che percorre quattro quartieri periferici di Barcellona – rendendo palpabile la loro capacità di tessere una narrazione ininterrotta tra sovramondo e sottomondi; l’abilità di rendere giustizia a un continuo lavorio di ridefinizione, di costruzione che non è solo urbanistica o paesaggistica ma soprattutto antropologica.

Questo resoconto a “quattro occhi” va oltre la relazione dell’uomo con lo spazio, o per lo meno trascende un contesto in senso strettamente fisico, per coglierlo nelle sue possibilità emotive, mentali e spirituali. Nel confine che inventa la periferia si coglie una narrazione intuita nel suo compiersi, smagliarsi, ricomporsi e uno spazio che prima – pochi anni fa – era economicamente etichettato e socialmente stigmatizzato ora è davvero “orizzonte degli eventi” che attrae il cambiamento, registra il meticciamento e, di conseguenza, costruisce un futuro inimmaginabile.

La presenza umana non appare dunque inopportuna, dannosa o inquieta ma emerge come quella che il poeta Andrea Zanzotto definirebbe “insediamento-fioritura”: «l’uomo, quale momento più ardente della realtà naturale, si colloca in essa al punto giusto, la riordina alle sue leggi. Il paesaggio viene dunque ad animarsi e a meglio splendere nel lavorio umano che vi opera, perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano elementi che un “giusto” antropocentrismo ha fatto risaltare.»

Pur nella precarietà della forma o in una s-graziata massificazione edilizia, le regole di un’imminente utopia esistenziale che scompaginerà le regole non scritte del comune relazionarsi si stanno riscrivendo qui, nei luoghi in cui nessuno è propriamente a casa ma dove ciascuno sta cercando di mettere radici; angoli dove le lingue si mescolano in neologismi e i sapori si contaminano, le musiche influenzano e i cm di spazio conquistano.

Niente è idilliaco, ovviamente. Ci sono “interminabili spazi e sovrumani silenzi” a intervallare la crescita e lo sviluppo, a dare il ritmo da una zona all’altra, un quartiere all’altro, ma anche uno straordinario corpo a corpo che si identifica a più strati, ritaglio su ritaglio: l’immagine, i luoghi, le vite che vi si muovono dentro, cambiandoli e significandoli, le memorie che trascinano e che sedimentano.

Con freschezza penetrante gli scatti di Meloni e Bach riescono a frantumare l’opacità di un pregiudizio rinnovando un vocabolario sentimentale che si carica della responsabilità del nuovo millennio; uno sguardo politico e consapevole che ricostruisce il mondo.

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