Chi legge i testi classici della biblioteca avita entra fisicamente nel tempo passato e nell’incantesimo di quella realtà cristallizzata dei libri chiusi e addormentati in mentis deum.
Chi scrive non è mai solo, mi vien da dire, perché si è in compagnia della nostra preziosa memoria e si è in presenza della soddisfazione e dell’impegno di dar vita letteraria al nostro dire modesto e silente che fissiamo sui fogli.
Quando apriamo al mattino la finestra sulla via e facciamo il nostro primo sforzo giornaliero per essere vivi, oltre a respirare e a guardare fuori dalla finestra, ci muoviamo per prendere una sedia e quando ci siamo seduti con serenità apriamo il primo foglio bianco, afferriamo come un bisturi la penna biro e cominciamo a scrivere sulla carta con la consueta confidenza che abbiamo con le parole per farle uscire, fidandosi di noi.
Usiamo le parole con moderazione: tutto lo spazio che abbiamo davanti ci è utile, non dobbiamo sprecarlo con il superfluo e con l’inutile, non possiamo infiorare di parole il nostro testo, ma anche le parole più scabre e più spigolose trovano il posto adatto nel muro a secco del racconto antico o in quello moderno che chiede un minimo spazio per costruire dal nulla un ricovero per la notte, un riparo per gli attrezzi dell’orto e per i paletti di sostegno da piantare accanto alle piantine di pomodoro o alle zucche estive che cresceranno rigogliose.
Ogni parola in più suona strana e non occorre andare oltre l’essenziale, uscire dalle righe necessarie per la storia che ci narriamo.
Bruno Chiarlone Debenedetti